17. L’uomo chiamato Leggenda

Jan 3rd, 2011 by The Goat in NBA Legendary Games

“Non vedrete mai più in campo un altro giocatore come Larry Bird. In futuro ci potrà essere un altro Magic o un altro Jordan, ma non ci sarà mai un altro Bird”.
Con queste parole Earvin Magic Johnson rendeva omaggio al suo più grande e acerrimo rivale. L’uomo contro cui aveva combattuto decine di battaglie e che per dieci lunghissimi anni aveva rappresentato l’ostacolo più difficile, spesso impossibile da superare per arrivare all’agognato anello.
Magic Johnson non ha mai nascosto la sua venerazione per Larry Bird, arrivando addirittura a considerarlo “naturalmente più forte”. Lucida ammissione? Falsa modestia? O semplicemente sconfinata ammirazione?
Non è nostra intenzione, né tanto meno fine di questo raccolta, entrare nell’annosa, eterna, inutile ed irrisolvibile questione su chi dei due sia stato il Migliore. Ci limitiamo semplicemente ad associarci al ben più esperto ed autorevole parere di un uomo che il mondo della NBA l’ha conosciuto in prima persona, Dan Peterson, secondo cui: “Quando pensavi di aver visto tutto, di essere in grado di tirar le somme, subito dopo succedeva qualcosa che ti faceva cambiare idea. Vedevi Bird dominare Magic, giocare splendidamente e dicevi: “meglio di così non si può giocare! Bird è migliore!”. Ma la gara successiva vedevi Magic giocare ancora meglio e dominare Bird; e poi ancora vedevi Bird, e poi Magic… i due si superavano a vicenda, sembrava che alla bontà del loro gioco non ci fosse mai limite… anche quando finiva una stagione con uno dei due vittorioso, l’anno dopo vedevi l’altro arrabbiato come non mai, che faceva cose ancora migliori”.
Il loro era un continuo, meraviglioso superarsi a vicenda. Probabilmente Magic non sarebbe stato Magic senza il 33 biancoverde. E Bird non sarebbe stato Bird senza il 32 gialloviola. La sconfinata grandezza di entrambi nasceva anche in virtù della presenza dell’altro. Su una cosa però ci si può trovare universalmente d’accordo. Non ci sarà mai un altro Larry Bird.
Quasi sicuramente Micheal Jordan è stato nel complesso un giocatore migliore. Ha vinto molto di più, realizzatore di ben altra caratura, sicuramente più spettacolare, con l’inavvicinabile capacità di poter governare e decidere le partite da solo.
Lo stesso Magic ha vinto più di Bird, sia a livello NBA, sia a livello di college, anche se in quest’ultimo caso è bene stare attenti alla differenza che corre fra un college di altissimo livello come Michigan State ed uno come Indiana State che ha conosciuto celebrità e fama solo grazie a Larry.
Ma ciò che ha reso e continua a rendere Bird unico è stata la profonda contraddizione che si celava dietro il suo gioco. Un giocatore normale. Eppure straordinario. Un tipo comune. Eppure inimitabile. Molto più di un Jordan, molto più di un Magic.
Un altro Bird, un giocatore bianco, con quell’abilità e quell’altezza, con quella feroce determinazione ed un’intelligenza cestistica fuori dal comune, la sua sconfinata sicurezza nei propri mezzi e soprattutto la semplicità su cui imperniava tutta la sua pallacanestro, non lo rivedremo mai più. E’ proprio questo ciò che ha fatto di Larry Bird una leggenda per Boston e per la NBA intera, nel senso più assoluto del termine. La semplicità.
Prestazione mostruose nell’accezione jordaniana” del termine, Bird raramente le ha realizzate. La sua grandezza era nella costanza, nel saper essere letale quando la partita diventava davvero calda, quando la palla scottava per tutti ma non per lui, e soprattutto nella sua tecnica da manuale del basket. Una tecnica che gli permetteva di essere in grado di far qualunque cosa potesse servire a vincere una partita, persino di umiliare gli avversari in campo, anticipando a parole i propri tiri, per poi magicamente tramutarli in realtà, sotto lo sguardo inebetito del nemico, in un trash talking che cresceva di pari passo con l’importanza delle partite.
Per onorare la grandezza di The Legend e concluderne il percorso che ha trovato spazio in queste pagine, ci fermiamo alla stagione 1987-’88.
L’anno prima Bird aveva dovuto abdicare dal trono di MVP della regular a vantaggio proprio del suo eterno rivale Magic alla prima assoluta. I suoi Celtics si erano inoltre dovuti inchinare agli eterni rivali in maglia gialloviola in una tiratissima finale, al termine della quale Riley si era sbilanciato nella famosa promessa del “back to back”.
La stagione 1987-’88 vide i Celtics terminare la regular con un record di 57W e 25L, primi nella Eastern Conference, ma secondi nella lega dietro i soliti gialloviola (62W 20L).
Il bottino personale di Bird fece registrare 29.9 punti a partita, 9.3 rimbalzi e  6.1 assist. Fu l’ultima stagione ad altissimo livello per lui, prima che gli infortuni cominciassero a non dargli più tregua e i nuovi rampolli della lega (Malone e Barkley) lo estromettessero per la prima volta, dopo 9 lunghi anni, dal primo quintetto NBA.
Il saluto del grande Larry all’elite della NBA fu però col botto.
In semifinali di Conference della Eastern, i Celtics si trovarono opposti ad una delle realtà emergenti della lega, quegli Atlanta Hawks (52W 30L), guidati da uno dei giocatori più spettacolari che abbiano mai calcato un parquet di basket, Dominique Wilkins. Evidentemente la presenza del buon Nique, ispirava non poco Bird, perché già tre anni prima il biondo di French Lick aveva realizzato il suo high score in carriera contro Atlanta.
Era il 12 marzo, 1985. Quel giorno gli Hawks avevano provato ogni soluzione per fermare il numero 33 in maglia verde. Ma si era rivelato tutto inutile. In piena trance agonistica, Bird aveva realizzato 60 punti, compresi tutti gli ultimi 16 dei suoi Celtics, ed aveva tirato dal campo con un fantastico 22 su 36. Al povero Wilkins, che comunque aveva fatto registrare sul box score ben 36 punti, cui toccò l’arduo compito di marcarlo, non restò che affermare a fine gara:
“Gli stavo sempre sopra, gli davo spintoni, lo infastidivo in ogni modo. Ma lui infilava dei palloni che non avrebbero mai lasciato le mani di altri”.
Erano passati tre anni da allora. Ancora nessuno poteva saperlo ma i Celtics non erano più quelli dell’85, quando erano nel pieno del loro splendore. Venivano da quattro finali NBA consecutive, due vinte e due perse. Quell’anno la loro corsa si sarebbe però arrestata in finale di Conference contro i Detroit Pistons di Isiah Thomas e dei suoi Bad Boys.
La semifinale contro Atlanta, all’iniziò sembrò essere segnata come da pronostico. Due partite al Boston Garden e due facili vittorie per i Celtics. Poi però, non solo gli Hawks, riuscirono a riequilibrare la serie in casa, ma in gara 5 andarono addirittura ad espugnare il Garden, portandosi sul 3 a 2.
Messi spalle al muro, i Celtics fecero leva sul loro smisurato orgoglio. In gara 6 i Celtics si imposero ad Atlanta di due punti (102-100), riuscendo a portare la serie alla settima e decisiva sfida. Storicamente i Celtics diventavano quasi imbattibili nelle gare 7 al Garden, eppure quella sfida fece storia a sé.
Tuttora viene ricordata come una delle più grandi prestazioni di due singoli giocatori su un campo da basket.
Una partita straordinaria, in cui due avversari si sfidarono in una battaglia che non prevedeva il coinvolgimento dei propri compagni di squadra. Un semplice, fantastico, 1 contro 1. Solo per quel giorno il basket smise di essere uno sport di squadra e divenne una guerra personale fra due uomini.
Alla fine la spuntò Bird, ma quella gara probabilmente rappresentò anche l’apice della carriera del suo diretto avversario, Dominique Wilkins.
Nique entrò in campo deciso a giocarsela fino in fondo. Un’estrema dterminazione e la consapevolezza che sarebbe stato perfettamente inutile anche un suo cinquantello, se contemporaneamente non avesse limitato Bird. Doveva attaccare, ma anche difendere. E difendere duro.
I primi tre quarti della partita furono un autentico show di “The Human Highlight Film”. All’inizio dell’ultimo periodo il suo score personale era di 31 punti, frutto di una serie di impressionanti schiacciate e jump dalla media.
D’altro canto, Bird aveva  soli 14 punti, limitato ottimamente dal suo avversario. Fu a quel punto che incominciò uno dei più straordinari quarti della storia del gioco.
Si narra che fu una parola di troppo di Nique a dare il via allo show. Il risultato era fermo sull’86 pari  ed il cronometro indicava che mancavano 10 primi e 26 secondi alla fine del match. Fu allora che i due si guardarono e partì la silenziosa sfida.
Bird mise il primo tiro a 10 minuti e 3 secondi dalla fine. Nei due minuti successivi ne piazzerà in totale 9. Ad ogni canestro di Larry, rispondeva però un Wilkins, in completa trans agonistica, che un disorientato McHale non riusciva minimamente a limitare.
A 5.57 dalla fine il risultato era ancora di parità, 99-99.
Ma Larry Bird non si fermò. Continuò a martellare il canestro, senza sbagliare un colpo. Poi ad 1 minuto e 43 secondi dalla fine, con le mani di Wilkins praticamente ad ostruirgli l’intera visuale, fece partire la tripla che voleva dire resa per Atlanta. Aveva realizzato 20 punti, con 9 su 10 dal campo solo nell’ultimo periodo, Per un totale di 34 punti, con 15 su  24 al tiro.
Con i suoi Hawks sotto di due ad un secondo dalla fine, Wilkins tentò la carta della disperazione.  Sbagliò intenzionalmente il suo secondo tiro libero, per andare a rimbalzo offensivo. Ma fu anticipato da Parish e la partita si chiuse una straordinari vittoria di misura dei Celtics: 118-116. Wilkins nell’ultimo periodo aveva realizzato 16 punti, chiudendo a quota 47 con un mostruoso 19 su 23 dal campo. Kevin McHale (33 punti finali per lui), al termine della partita dichiarò:
“Non ho mai lavorato così duramente in difesa, eppure il mio avversario ha messo 47 punti. Ho provato di tutto per fermarlo!”.
Ma il capolavoro di Wilkins si rivelò vano, perché dall’altra parte c’era un uomo che non a caso era chiamato Leggenda.

Pubblicato per Playitusa il

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