25. Another brick in the… soul
Parliamo di basket.
Di nobile o volgare basket NBA. Infarcito di leggende e di miserie umane, ricco di incrollabili miti e modesti figuranti, ma pur sempre solo e semplicemente basket.
Uno sport. Insomma, quella roba lì, buona per passare il tempo o per farci sopra qualche soldo.
Ne siamo proprio sicuri? Quella di cui ci apprestiamo a raccontare può essere definita una semplice partita di palla al cesto (come diceva mio nonno!), quando fra le sue innumerevoli pieghe, prende vividamente corpo il crollo psicologico di un uomo che spende gli ultimi bagliori di un’ottima carriera, ancora lontana dal termine, dalla linea della carità?
De Coubertin aveva detto “L’importante è partecipare, non vincere”. Nobile frase, certo! Ma… andate a dirlo ad un Micheal Jordan! O provate a sussurrare queste encomiabili parole alle orecchie di Elgin Baylor, Charles Barkley, Pat Ewing, John Stockton e Karl Malone!
O – perché no? – provate a sussurrarle alle orecchie di Nick Anderson! Orecchie in cui magari risuona ancora il boato della O-rena negli ultimissimi secondi di quella assurda finale. Ed il boato che si trasforma tragicamente in silenzio. Un silenzio assoluto. Irreale.
Mancano 7 secondi e 9 decimi alla fine di gara 1 tra Orlando e Houston. Nick Anderson, davanti al suo pubblico, va in lunetta per due tiri liberi decisivi. Il risultato è 110 a 107 per i suoi Magic. È sufficiente che ne metta uno solo perché la sua squadra divenga virtualmente irraggiungibile.
Invece… invece sbaglia il primo. Sbaglia anche il secondo.
A questo punto potrebbe crollarti il mondo addosso, ma Nick Anderson è sempre lì. È più veloce di Shaquille O’Neal e Horace Grant.
È più veloce di Hakeem Olajuwon, Clyde Drexler e Robert Horry. Vola a canestro. Cattura il rimbalzo. Subisce fallo. E… e torna in lunetta. Due nuovi tiri liberi per lui. Possono ancora voler dire vittoria. Devono voler dire vittoria.
Invece… invece sbaglia il primo. Sbaglia il secondo.
A questo punto il mondo gli crolla addosso per davvero. No doubt. È 0 su 4 dalla linea della carità nei secondi finali di una gara di finale.
L’importante è partecipare, eh? Andateglielo a spiegare!
Dall’altra parte del campo, a fil di sirena, Kenny Smith, il play veterano di Houston, mette la tripla del pareggio e manda la partita all’overtime.
Da quel momento Nick Anderson diventerà Nick The Brick. Nick il Mattone. Come quelli che probabilmente sono costati ai suoi Magic un anello. Quelli che hanno cambiato completamente l’inerzia della partita. L’inerzia dell’intera serie. Forse anche il futuro della NBA. Quei tiri liberi hanno rappresentato il crollo psicologico di un giocatore che in quegli stessi playoffs era stato sempre decisivo.
Aveva duellato alla pari con Jordan al secondo turno. Aveva retto il confronto con uno stratosferico Reggie Miller in finale di conference. Ma poi era miseramente crollato in quella finale davanti a Clyde Drexler. Non per merito del pur grandissimo avversario, ma per la sicurezza venuta meno dopo i fatali errori.
Quel momento è stato un bivio decisivo per la carriera del giocatore. C’è un prima, e c’è un poi. Un prima, che lo aveva visto tirare dalla linea della carità con una media del 70%. Un poi, che lo vedrà nel giro di un paio di anni precipitare alle soglie del 40%.
Nel mezzo quattro liberi sbagliati consecutivamente.
Certo, è solo basket. E l’importante è partecipare. Non vincere. O almeno così diceva De Coubertin.
Gara 1 di finale NBA del 1995 fra Orlando Magic e Houston Rockets è stata una gara molto particolare, decisamente affascinante. Mattoni compresi.
A dirla tutta, gli interi playoffs che hanno poi portato a quella finale, sono stati molto particolari e decisamente affascinanti.
Houston era chiamata a riconfermarsi dopo l’exploit dell’anno prima (titolo vinto in 7 gare contro i Knicks). Ma nessuno credeva sarebbe stato possibile. Il primo anello di Olajuwon e soci era sembrato frutto di circostanze favorevoli. Il ritiro di Jordan, le debacle di Phoenix e Seattle, l’immaturità di squadre molto più talentuose come la stessa Orlando.
Nessuno pensava che avrebbero potuto ripetersi. Nessuno pensava che ad un anno di distanza si sarebbe parlato di piccola dinastia ed il nome di Hakeem Olajuwon sarebbe stato accostato a quello dei più grandi centri di sempre.
A complicare le cose arrivò lo scambio di metà stagione che la franchigia del Texas mise a segno, spedendo a Portland Otis Thorpe (la spalla ideale di Hakeem), in cambio di Clyde “The Glyde” Drexler, la fenomenale guardia dei Trail Blazers (due finali NBA per lui, due sconfitte, contro i Bad Boys di Detroit e conto i Bulls di Jordan). L’acquisto di Drexler fu additato da tutta la stampa specialistica made in Usa come un colossale errore da parte di Houston, per alcuni motivi giudicati fondamentali:
– I recenti infortuni di Drexler, giocatore comunque giudicato in parabola discendente.
– Il problema Vernon Maxwell, fondamentale per l’anello dell’anno prima, ma dal carattere difficile ed eccessivamente polemico (successivamente messo appunto fuori squadra).
– Troppe guardie in una squadra che già prevedeva Kenny Smith, Sam Cassel, Mario Elie e lo stesso Maxwell.
– L’assenza dei fondamentali rimbalzi di Thorpe.
Ma soprattutto lo scambio fu visto come distruttivo per i sottili equilibri tattici e di spogliatoio della squadra. Ovvero veniva minata la famosa o famigerata chimica di squadra. I delicati equilibri nel minutaggio e nella suddivisione dei tiri individuali.
I risultati della Regular Season appena conclusa sembravano dar ragione alla corrente degli scettici. Houston chiuse con un record di 47 vittorie e 35 sconfitte. Decima posizione nella NBA. Sesta nel ranking della western alle spalle di Spurs (62-20), Jazz (60-22), Suns (59-23), gli allora SuperSonics (57-25) e Lakers (48-34).
I Rockets si presentarono ai playoffs con una squadra in piena crisi di identità, priva di un qualsiasi tipo di chimica, un Olajuwon alle prese con problemi di anemia, e soprattutto consci che per difendere il titolo avrebbero dovuto rovesciare il fattore campo in ogni singola serie. Impresa mai riuscita prima di allora.
Nei due mesi successivi, si sarebbero dovuti ricredere tutti. E Houston metterà in scena uno show senza precedenti.
Due vittorie esterne al Delta Center di Salt Lake City permettono ai Rockets di superare al primo turno i Jazz per 3-2.
La semifinale di conference è un’autentica battaglia. Contro Charles Barkley e i suoi Suns. Dopo due partite a Phoenix, il risultato è due partite a zero per i Suns.
Ma ciò che dà più da pensare sono i 22 punti di scarto in gara 1 e i 24 di gara 2. Si torna a Houston per le due gare successive e Phoenix si porta addirittura sul 3-1.
Il resto è storia.
Ai Suns bastava una misera vittoria nelle successive 3 partite di cui due casalinghe. Vittoria mai arrivata. In gara 7 a Phoenix, i Rockets si impongono per 115-114 e volano in finale di Conference contro gli Spurs.
Hakeem Olajuwon contro David Robinson. Hakeem Olajuwon, il Sogno Nigeriano, che abusa letteralmente dell’Ammriaglio David Robinson, fresco MVP di stagione regolare.
Tre vittorie esterne. 4-2. Finale. Un’immagine su tutte. Gara cinque. Hakeem riceve palla sulle tacche, fa due finte, gira sul piede perno verso la linea di fondo, appoggia al tabellone mentre il suo avversario vola per aria nell’inutile tentativo di stoppata. Un canestro che passerà alla storia.
Dall’altra parte del Grande Fiume a contendere l’anello ai Rockets c’è la squadra più giovane della lega. La squadra del futuro.
I temutissimi e talentuosissimi Orlando Magic, guidati dal 22enne Penny Hardaway (scelta numero 3 al draft del ’93) e dal 23enne Shaquille O’Neal (prima scelta assoluta al draft del ’92).
Dei Magic si dice ogni bene. O’Neal è il nuovo Chamberlain. Miglior realizzatore della stagione appena conclusa con 29,3 punti a partita. L’anno prima era stato beffato da Robinson proprio all’ultima gara, quando il pivot degli Spurs ne aveva messi 72. Terzo miglior rimbalzista della lega con una media di 11,9 a partita.
Il secondo anno Penny Hardaway, da parte sua, si crogiolava di appellativi davvero impegnativi. C’era chi lo definiva un nuovo Magic, con più difesa. Addirittura lo stesso Jordan arrivò a designarlo come suo erede naturale.
In più la squadra poteva contare sull’apporto dell’ex Bull, Horace Grant (rimbalzista fondamentale per la prima tripletta dei Tori), di Dennis Scott e appunto di Nick Anderson. Una squadra costruita per vincere. Per dominare negli anni a seguire.
Dopo il 3 a 1 sui Celtics al primo turno dei PO, per Orlando si era però subito presentato l’ostacolo Bulls del rientrante MJ.
Jordan, tornato per portare nuovamente la sua squadra sul tetto del mondo, adesso indossa il numero 45. Ed in gara 2 porta Chicago a violare la O-rena.
I Magic ristabiliscono il fattore campo in gara 3. Dopo quattro gare le due squadre sono sul 2 a 2.
Ma la serie è già chiusa.
Due anni lontani dai campi di gioco non possono essere sopportati indifferentemente, neanche se ti chiami Micheal Jordan.
Le gambe, il fiato vengono a mancare proprio nei momenti decisivi. Hardaway sale in cattedra. Nick Anderson gioca la serie della vita in difesa su MJ. Nei minuti finali delle partite decisive, Jordan che nel frattempo ha rispolverato il numero 23, dopo una battuta di troppo dello stesso Hardaway “Il numero 23 era un’altra cosa. Il 45 è solo un ottimo giocatore!”, sbaglia qualcosa di troppo. Perde un paio di palloni fondamentali, e Orlando vola ad affrontare Indiana in finale di Conference.
La finale contro Indiana di un grandissimo Reggie Miller è dura e faticosa. Orlando la spunta alla settima partita e si ritrova in finale.
La prima gara della serie che vale il titolo NBA è ovviamente alla Orlando Arena.
I Magic hanno i favori del pronostico dalla loro. Partono forte. Ad inizio secondo quarto si ritrovano avanti di 20 punti. Il loro profeta è Penny che fa ricorso a tutto il suo immenso bagaglio tecnico per scavare un solco fra i suoi ed i Rockets.
Sembra essere l’anno della consacrazione per lui, per O’Neal e per la squadra. Ma i Rockets non muoiono mai. Ne hanno passate troppe in questi playoffs per arrendersi proprio in finale.
Olajuwon si trova in uno stato di grazia strepitoso. È passato sul corpo di avversari fenomenali come Ewing, Malone, Barkley, David Robinson. Ha una varietà di tiri impressionante e come passatore è al top in carriera. Probabilmente non è il più grande centro di sempre, ma sicuramente è quello con la maggior varietà di soluzioni.
Sono lui ed un Kenny Smith ispiratissimo dalla distanza, a suonare la carica per i Rockets.
A fine primo tempo riescono a portare la propria squadra sotto di 11 punti. Nel terzo quarto Kenny Smith mette cinque triple di seguito per un parziale di 37 a 19, Rockets. E Houston alla fine del periodo si ritrova avanti di sette punti. 87-80!
Il vantaggio di Houston sale a 9 punti durante l’ultimo quarto, prima del recupero dei Magic.
Per Shaq (26 punti, 16 rimbalzi e 9 assist in gara 1), nell’arco dell’intera serie, è risultato impossibile vincere il duello contro Hakeem. The Dream ha dimostrato di avere troppe armi in più nel suo arsenale, mentre il 32 dei Magic se non riusciva ad andare a canestro, faticava parecchio.
Eppure Shaq ha sempre perso ogni singola battaglia ma non è mai crollato al suolo. È lui a riportare i Magic in partita nel quarto periodo. Ed è Penny a firmare il sorpasso a 10 secondi dalla fine. Più 3, Magic. Ancora una volta il resto è storia.
Lo 0 su 4 di Nick Anderson dalla lunetta. La settima tripla in partita di Kenny Smith che manda il match al supplementare. È quello il momento in cui probabilmente Orlando perde la gara e forse il titolo. All’overtime, Dennis Scott a 5,5 secondi dalla fine mette il canestro del 118 pari.
Sulla rimessa palla a Drexler. O’Neal gli oscura la visuale e Clyde forza il tiro. Palla sul ferro. Ma non è finita. Mancano soli 3 decimi di secondo alla fine e Olajuwon (31 punti finali per lui) vola per il tap-in vincente.
120-118, Rockets. 1-0 nella serie. Houston ribalta subito il fattore campo. Orlando va in tilt. Il resto della serie, quasi non ha storia. È sweep.
Potremmo chiederci all’infinito come sarebbe cambiato l’esito della finale senza quei quattro liberi sbagliati. Cosa sarebbe successo se Nick Anderson non fosse divenuto The Brick? Se Orlando avesse vinto quella partita e, spingendoci oltre con la fantasia, magari il titolo?
Potremmo chiederci all’infinito come sarebbe cambiata la storia della NBA senza quella delusione per O’Neal. Se nel suo futuro ci sarebbe stata egualmente Los Anegeles, ci sarebbe stato Kobe Bryant.
La risposta nelle parole di Carrol Dawson, assistente allenatore di Houston, il quale dopo la vittoria della sua squadra ebbe modo profeticamente di dichiarare:
“Nell’86 noi eravamo i Magic di oggi e Boston diventava vecchia. Pensavamo di vincere chissà quanti titoli. Abbiamo invece dovuto aspettare quasi 8 anni e l’abbiamo fatto con una squadra completamente diversa. Questo dimostra quanto è aleatoria l’NBA. Mio consiglio ad Orlando: fate di tutto per vincere ora che potete, senza crogiolarvi del futuro roseo che vi attende. Non rimandate. Il futuro è un’incognita!”.
Mai parole più profetiche di queste.
Pubblicato per Playitusa il
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