26. Il virus che voleva fermare MJ
Al termine di gara 1 un solo grido si levava dagli spalti dello United Center di Chicago: “MVP, MVP, MVP”.
Così forte, così possente da far tremare persino i muscoli di un uomo che non ha mai abbassato lo sguardo dinanzi a nulla. Karl Malone probabilmente in quel momento capì la differenza fra l’MVP di stagione e l’MVP di tutti i tempi.
Ma facciamo un passo di indietro di circa un mese.
Torniamo al maggio di quel 1997, playoffs in pieno svolgimento (perché maggio sarà anche il mese delle rose o della Madonna, ma per i baskettari di mezzo mondo rimane il mese dei payoffs).
In Regular Season Chicago non era riuscita a bissare la straordinaria stagione dei record dell’anno prima (72 vinte e 10 sconfitte), in cui Jordan aveva portato a casa, oltre che l’ottavo titolo di miglior realizzatore ed il quarto anello, anche i titoli di miglior giocatore della stagione, dell’All Star Game e delle finali.
Eppure i Bulls avevano comunque eguagliato il precedente record di season che risaliva addirittura al 1972 ad opera dei Lakers di West e Chamberlain, 69 vittorie contro 13 sconfitte.
Avevano chiusto con cinque vittorie in più degi Utah Jazz, guidati dall’intramontabile Stockton to Malone, giunti probabilmente al punto più alto della loro carriera.
Karl Malone aveva realizzato 27.4 punti per partita (secondo alle spalle di Jordan) e catturato 9.9 rimbalzi per gara.
La lotta per il trofeo di miglior giocatore della stagione era una questione privata, fra i due migliori giocatori del momento.
Il postino contro Sua Maestà Jordan.
Mentre i Bulls regolavano senza troppa fatica gli Hawks e i Jazz maltrattavano tranquillamente i Lakers, rimbombava nell’etere la notizia che l’MVP stagionale era stato assegnato all’ala di Utah, con una vittoria di stretta misura sul numero 23 in maglia Bulls.
La Città del Vento non la prese affatto bene. Considerò quella decisione alla stessa stregua di un affronto personale, quasi un’empia ingiustizia da ricacciare in gola all’usurpatore del trono alla prima occasione valida.
Non dovettero aspettare molto.
La serie finale mise infatti di fronte i Chicago Bulls e gli Utah Jazz. O, come sarà ribattezzata dopo gara 1, l’MVP di stagione contro l’MVP di sempre.
Chicago. Domenica pomeriggio. Gara uno. Equilibrata e ricca di emozioni.
A 9.2 secondi dalla fine, con il punteggio bloccato sull’82 pari, Karl Malone va in lunetta per due tiri liberi che possono voler dire vittoria e rovesciamento del fattore campo.
Scottie Pippen gli si avvicina, gli sussurra qualcosa all’orecchio. Malone scuote il testone, innervosito. Si posiziona sulla linea dei tiri liberi.
Volto concentrato, labbra che si muovono a scandire il ritornello che da sempre ripete quando si ritrova a portare a termine quell’infausto compito, Karl lascia partire il primo libero.
Palla sul ferro.
Ancora le labbra che frenticamente bisbigliano qualcosa, ancora l’estenuante ritornello, poi parte il secondo libero.
La palla gira nuovamente sul ferro, allentato dalle recenti esibizioni circensi allo United Center, ed esce. Rimbalzo difensivo di Chicago. Time Out.
La faccia di Malone, immortalata in migliaia di riprese televisive, ci racconta tutto lo sconforto del giocatore.
In seguito si verrà a sapere che le parole bisbigliate da Scottie a Karl, un attimo prima dei liberi falliti, sarebbero state: “Di domenica i postini non consegnano”.
Giù il cappello.
Sul filo della sirena di quella gara 1, Jordan metterà il canestro decisivo in faccia a Bryon Russel ed alzerà il pugno al cielo in segno di vittoria. Quasi di sconfinato potere. 1-0 Bulls. Fattore campo rispettato.
MVP, MVP, MVP.
Nel dopopartita il postino si presenterà in conferenza stampa e dichiarerà candidamente di aver solamente preso in prestito per un anno quel trofeo di miglior giocatore, che spettava di diritto a Micheal Jeffrey Jordan.
Non un bagno di umiltà da parte di King Karl, visto che quel titolo non l’aveva certamente rapinato, pistola in pugno, ma era stato il meritato premio a coronamento di una stagione esemplare del 32 di Utah. Semplicemente un rispettoso riconoscimento al più grande.
Ma chi si era aspettato i Jazz come ennesima vittima sacrificale dinanzi alla potenza dei Bulls, aveva sbagliato i calcoli. Dopo 4 gare, si era incollati sul 2-2.
La quinta era ancora al Delta Center, Salt Lake City, Utah.
I Jazz venivano da due vittorie consecutive casalinghe, spinti anche dell’entusiasmo dei tifosi del Delta Center, una delle arene più chiassose d’America.
Gli ultimi due minuti di gara 4 erano stati un autentico show di John Stockton. Diciassette punti, dodici assist, un’importante palla recuperata a MJ a pochi secondi dalla fine ed un impossibile e telepatico assist da canestro a canestro per Malone, che rimarrà scolpito negli annali di questo sport, degno del miglior quaterback della NFL.
I Bulls, forse non erano mai stati messi così in crisi da un avversario in una finale. Probabilmente neanche da Phoenix nel 1993. Ma a far vacillare le speranze dei Tori, fu soprattutto la notizia che arrivò al mattino di gara 5 e che esplose con sommo fragore da Salt Lake City a Chicago, da una costa all’altra, attraverso tutti gli States: Micheal Jordan era in forte dubbio per la partita.
La notte prima della gara era stato colpito da una violenta infezione intestinale, che gli aveva procurato febbre, vomito, disidratazione ed una nottata completamente insonne.
Alla presentazione delle squadre, Micheal è regolarmente nello starting five, ma quando le telecamere si posano sul suo volto sofferente, è subito evidente che qualcosa non va.
Lo sguardo, quello sguardo che lo aveva reso un’icona nel mondo del basket, quegli occhi che secondo Drexler emanavano lampi, stavolta erano spenti. Occhi lucidi, acquosi, quasi languidi. È sudato ancor prima di iniziare a giocare. È l’immagine della sofferenza fisica.
Si saprà in seguito che, immediatamente prima del match, il termometro con cui il medico gli aveva misurato la temperatura, aveva dato come responso 39°.
Gara 5 diventa per i Jazz una ghiotta occasione da non sprecare. L’imperativo assoluto è vincerla ed abbattere le residue speranze dei Bulls.
Utah parte col piede sull’acceleratore. Sono consci di avere dalla propria la fortuna di un Jordan in cattive condizioni fisiche. Sanno di avere l’intero ed indiavolato palazzetto dalla propria. Un tifo da spaccare i timpani. Ma soprattutto sanno di potersi portare per la prima volta in vantaggio in questa serie, di poter essere la seconda squadra in assoluto a metter sotto i Bulls di MJ in una serie finale, e di giocarsi il tutto per tutto una volta tornati a Chicago.
Il primo quarto si chiude sul 29-16, Utah. Un più 13 che sembra già segnare la sfida. Nel secondo quarto Chicago sembra risvegliarsi, ma Utah non molla. Complici l’insufficiente prestazione di Rodman (per lui a fine gara 2 punti e soli 7 rimbalzi) ed un Pippen impreciso al tiro (per lui 17 punti, ma 10 rimbalzi e 5 assist), Jordan deve dar fondo a tutte le sue già scarse energie per riportare la sua squadra in partita. La prima metà di gara finisce però ancora con i Jazz avanti: 53-49. Nell’intervallo tutte le preoccupazioni dello staff tecnico dei Bulls sono per il numero 23.
Il bruttissimo inizio di Chicago ha costretto Jackson a tenerlo in campo più del previsto ed ha costretto Micheal a fare gli straordinari sin da subito.
Lo stesso MJ teme di non farcela. Parla con coach Phil di un suo possibile utilizzo solo nei momenti chiave. Neanche a dirlo, sarà colui che (insieme a Pippen) rimarrà in campo più di tutti.
Il terzo quarto è tirato e combattuto. Entrambe le squadre alzano i propri muri difensivi. Solo 37 punti complessivi. 19 per Utah, 18 per Chicago.
Risultato parziale: 72-67. Un più 5 Utah, che lascia la gara assolutamente aperta a qualsiasi soluzione.
Poi arriva l’ultimo periodo. E qui si scrive la storia. L’ennesimo capitolo di una saga leggendaria, quella di Micheal Jeffrey Jordan.
Inizia la rimonta di Chicago. Lenta, ma inesorabile.
A 46 secondi dalla fine, i Bulls sono sotto di uno: 85-84.
Fallo su Micheal. Il numero 23 va in lunetta. Mette il primo libero. Parità. Sbaglia il secondo. La palla tocca il ferro. MJ è il più lesto di tutti. Vola a rimbalzo offensivo e nel traffico aereo fa sua l’arancia.
Pippen è piazzato in post, riceve la sfera dal 23.
Bryon Russel abbandona la difesa su Jordan per andare a raddoppiare Pippen. Micheal esce dalla linea dei tre punti. Pippen lo vede con la coda dell’occhio e gli restituisce il pallone.
Parte la tripla. Solo rete. 88-85, Bulls.
“We wanted it real bad” dirà Jordan in seguito “I was really tired and very weak. I came in and I was almost dehydrated. My energy level was really low. My mouth was really dry”.
Insomma, stanco, debole, disidratato, un livello di energie quasi sotto zero e la bocca completamente secca, eppure vincente. Come sempre.
Il boxscore di fine gara dirà 44 minuti di gioco per MJ, 38 punti, 13 su 27 dal campo, la tripla della vittoria.
Il risultato finale è di 90-88 per i Bulls. Appena la partita finisce, Jordan si avvia verso gli spogliatoi, ma non ce la fa. Pippen lo sorregge e lo porta in panchina di peso.
Forse la più grande prova del più grande di sempre.
I Bulls chiuderanno quella serie in gara 6 col famoso canestro decisivo di Steve Kerr, su assist di Jordan, dopo che stavolta coach Sloan aveva deciso di raddoppiare.
Pubblicato per Playitusa il
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