23. Say it ain’t so, Michael
La tripla di John Paxson a tre secondi dalla fine di gara 6 di finale contro i Phoenix Suns, aveva consegnato la favolosa tripletta ai Chicago Bulls.
Michael Jordan aveva dunque coronato il sogno di una vita: riuscire in un’impresa che era sfuggita ad altri grandissimi campioni del passato, quali Magic Johnson, Larry Bird, Isiah Thomas.
Ma l’esultanza ed i festeggiamenti a Chicago durarono poco. A turbare la gioia dell’intera città fu la notizia che iniziò a serpeggiare sin dal giorno dopo il magico e festoso pomeriggio di Phoenix.
Jordan stava seriamente meditando di abbandonare l’attività agonistica. Aveva appena 30 anni. Era all’apice della sua carriera. Probabilmente non aveva mai giocato così bene come nelle finali appena concluse. Un mix di atletismo, tecnica, difesa, sconfinata sicurezza nei propri mezzi, voglia di vincere, cattiveria agonistica, lo avevano catapultato direttamente nell’Olimpo del basket.
Per molti era già il più grande di sempre. Per altri, forse non era il più grande, ma aveva raggiunto delle vette cestistiche che nessun giocatore prima di lui aveva mai eguagliato. Per tutti aveva ancora tanto da dare al mondo del basket.
Eppure MJ era pronto a dire basta. Il rumore creato dalla sua fuga ad Atlantic City, durante le finali di conference contro i Knicks e lo scandalo che era seguito all’uscita del libro di Esquinas, durante le finali contro i Suns, avevano alzato il suo livello di intolleranza nei confronti dell’ambiente.
La sua vita privata era stata completamente passata al setaccio dai mezzi di informazione al fine di trovare una crepa nell’immagine di uomo perfetto che si era creato.
Le speculazioni sui suoi problemi col gioco d’azzardo e sui debiti che aveva contratto, l’accanimento della stampa sulla sua persona, l’avevano massacrato.
Jordan al termine delle finali del 1993 era una persona stanca.
Ma forse avrebbe continuato a giocare se nell’agosto del ’93, la sua vita non fosse stata stravolta da un evento tragico come pochi ed ancora una volta i media non avessero trovato il modo per farvi del triste e macabro sciacallaggio giornalistico.
Il padre James, il suo migliore amico, colui col quale era solito confidarsi nei momenti difficili, colui che gli aveva detto “take over” nell’acerrima sfida contro i Knicks del ’92 e che gli aveva consigliato una serata di distrazioni al casino di Atlantic City l’anno dopo, trovò una tragica morte in un’afosa nottata di metà agosto.
James Jordan tornava dal funerale di un amico nel North Carolina. Era al volate di una lussuosa Lexus in piena notte quando, colto da stanchezza, aveva deciso di fermarsi sul ciglio a riposare.
Due balordi videro l’auto di lusso, si avvicinarono e spararono due colpi di pistola attraverso il finestrino abbassato. Lo assassinarono a sangue freddo. James passò dal sonno alla morte senza neanche rendersene conto. I due uomini lo rapinarono, quindi scaraventarono il corpo in un boschetto poco distante.
James non diede notizie di sé per diversi giorni. Lo faceva spesso ed all’inizio la cosa non destò particolari preoccupazioni. Ma quando l’assenza iniziò a perdurare, l’intera famiglia Jordan dapprima iniziò a preoccuparsi, quindi precipitò in uno stato di profonda angoscia. Partirono le ricerche. La macchina fu ritrovata in un fossato. Di lì a poco si venne a scoprire che il cadavere di James Jordan, visto che erano passati alcuni giorni e nessuno l’aveva identificato, era stato cremato a regola di legge. Le impronte dentali confermarono si trattava proprio di lui.
Per MJ fu una catastrofe. Non solo. La stampa cominciò a speculare sulle ragioni dell’assassinio. Si parlò di un avvertimento lanciato al giocatore affinchè saldasse i suoi debiti, di interventi della mafia, di come Michael fosse responsabile di questa morte.
Il giocatore reagì ovviamente in maniera durissima con un comunicato scritto.
Quando, qualche giorno dopo, gli assassini furono trovati e incarcerati, venne subito a galla che le scommesse e i debiti non c’entravano nulla. Era stato un semplice e triste caso di omicidio per rapina, come tanti.
Ma le voci e le illazioni della stampa avevano torturato il campione dei Bulls. In quei giorni Michael decise di dire basta.
La notizia ufficiosa trapelò il giorno della prima partita dei Playoffs dei White Sox di baseball. Al Comiskey Park, MJ ebbe l’onore di lanciare la prima palla. Scott Williams e Scottie Pippen, anche loro presenti alla partita, andarono di persona a parlargli. Lasciarono subito dopo lo stadio affranti.
Il giorno successivo il Chicago Tribune titolò a caratteri cubitali:
“Say it ain’t so, Micheal”, dicci che non è vero.
L’annuncio venne dato al Berto Center in una conferenza stampa, tenutasi in un clima surreale. Ad un tavolo MJ, la moglie Juanita, Phil Jackson e Jerry Reinsdorf. Attorno tutti i giocatori dei Bulls.
MJ accusò la stampa di aver avuto un ruolo fondamentale nella sua decisione. Disse che la sua vita era diventata impossibile a causa loro, che aveva voglia di normalità.
Michael Jeffrey Jordan, trent’anni, nove stagioni in NBA, tre titoli, due ori olimpici, tre volte MVP della stagione regolare e delle finali, sette volte primo quintetto NBA, una volta secondo quintetto, un trofeo di rookie of the year, sei volte primo quintetto difensivo, un titolo di difensore dell’anno, sette titoli di miglior realizzatore, diceva addio al basket giocato.
Per i Bulls fu un colpo tremendo. La squadra dei tre titoli era rimasta intatta ed in più dall’Italia era arrivato Toni Kukoc, da tempo oggetto del desiderio di Jerry Krause. Il GM dei Bulls, più volte si era ritrovato a ripetere che sognava un contropiede con Kukoc a portare palla e Jordan e Pippen nelle corsie laterali. Con Toni sesto uomo di lusso, secondo le idee di Jackson, i Bulls sarebbero stati ancora più forti degli anni precedenti, ancora più forti della concorrenza. Ma senza Michael cadeva tutto.
A sostituire MJ si ritrovò Pete Myers, un veterano che aveva giocato in numerose squadre ed in Europa, senza mai brillare. Buon difensore, ma attaccante davvero molto mediocre, si trovava sulle sue spalle un’eredità che pesava come un macigno.
Eppure Myers, pur nei suoi limiti, sarà una delle sorprese della stagione che ormai era alle porte.
Chicago non partì benissimo. Dopo 16 partite aveva un record del 50%. Poi la squadra inanellò una striscia di dieci vittorie consecutive. Fu durante quella striscia che i Bulls trovarono i giusti equilibri e Pippen ne assunse in pieno il ruolo di leader. Guidò i Bulls in punti (22 a prtita), assist (5,9) e recuperi (2,93). Fu il secondo rimbalzista della squadra (8,7) alle spalle di Horace Grant. Fu il periodo migliore, numericamente parlando, della carriera di Scottie, ma nel contempo il più difficile.
Il suo gioco si elevò ad altissimi livelli, ma il ruolo di leader, che pure agognava ardentemente, a volte mal gli si adattava.
Nei diciotto mesi di assenza di MJ dal parquet, Pippen giocò benissimo, ma non era felice. Soffriva malvolentieri la presenza in squadra di Kukoc che guadagnava di più e nutriva forti risentimenti nei suoi confronti. Si sentiva profondamente frustrato ogni volta qualcuno metteva anche minimamente in dubbio la sua leadership nei Bulls. Tentava di fare il Jordan negli allenamenti senza averne il carisma, pretendendo dai suoi compagni il massimo, affinchè elevassero il loro livello così come era solito fare Michael, ma non ne aveva la stoffa.
Ridicolizzava letteralmente il povero Toni ad ogni uno contro uno, rendendogli la vita durissima, ma lo stesso Jordan gli disse di non esagerare, perchè il ragazzo croato prometteva davvero bene.
Pippen non riuscì mai a trovare in quel periodo la propria dimensione di leader. La cercò a lungo, ma senza successo. Il suo malcontento e la sua frustrazione aumentarono a dismisura col passare del tempo, trovando il culmine l’anno successivo, quando, dopo un’espulsione contro gli Spurs, arrivò a scagliare una sedia in campo, qualche settimana prima che Michael tornasse ad alleggerirlo delle sue responsabilità.
La striscia di dieci vittorie che cambiò la stagione di Chicago, comprendeva anche la prima sfida stagionale contro gli eterni rivali di New York, in cui i Bulls si imposero bene al Chicago Stadium con 8 punti di scarto. Poi persero nettamente le due partite al Madison Square Garden e nell’ultima partita di season furono spazzati via dai Knicks in casa, per 92 a 76, chiudendo gli socntri diretti con un bilancio complessivo di 1-3.
Chicago riuscì comunque a finire la stagione con un’ottimo record, 55 vittorie, 27 sconfitte ed il terzo posto nella Eastern, alle spalle proprio dei Knicks (57-25) e degli Hawks (57-25). Al primo turno di playoffs i Bulls seppellirono i Cavs per 3 a 0. Poi, ancora una volta, il destino mise loro di fronte New York, per un’ennesima epica sfida.
Ma stavolta i Knicks partivano nettamente favoriti. Senza Michael, nessuno si sarebbe aspettato da quella serie una battaglia così tirata che si sarebbe conclusa ancora una volta soltanto alla settima gara.
In gara 1 Chicago prese 15 punti di vantaggio nel terzo periodo. Crollò letteralmente nell’ultima frazione di gioco e New York, guidata da un ottimo Anthony Mason, rimontò e andò a vincere per 90 ad 86.
Gara 2 ebbe la stessa sorte. Chicago se ne andò nei primi tre quarti e nell’ultimo periodo, i Knicks alzarono un muro difensivo contro cui andarono ad infrangersi tutti gli attacchi dei Bulls.
La rimonta finale di NY, che chiuse la partita sul 96 a 91, sembrava non lasciare dubbi sulle reali forze in gioco.
Gara 3 a Chicago sembrò rispettare il copione. I Knicks subirono i ragazzi dell’Illinois nei primi tre quarti di partita, andando sotto anche di 19 punti. Poi piazzarono la solita clamorosa rimonta nel finale, portandosi sul meno uno, quando mancavano trenta secondi alla fine. Per Chicago sembrava un incubo. I Bulls avevano ancora un possesso per chiudere definitivamente la partita. Fecero girare a lungo la palla, ma la sirena dei 24 secondi suonò senza che loro avessero ancora trovato un tiro.
Mancavano 5 secondi e 5 decimi alla fine e la palla tornava ai Knicks per il tiro del sorpasso. Nelle mani di Patrick Ewing la responsabilità di quel tiro. Il jamaicano ricevette in area spalle a canestro, si girò ed in gancio firmò il 102 a 101 per i Knicks.
Mancavano ancora 1.8 secondi alla fine.
Phil Jackson chiamò Time Out. Disegnò l’ultimo gioco per Kukoc, dando ordine a Pippen di effettuare la rimessa.
Scottie rimase basito. Era lui il leader della squadra. Era lui il miglior realizzatore, l’uomo dell’ultimo tiro, era lui che aveva trascinato i Bulls all’ottimo record di regular.
Quando venne il momento di entrare in campo, Pippen rimase seduto. Phil lo invitò ad alzarsi, ma Scottie fece segno di no con la testa. Jackson chiamò un secondo Time Out. Discusse animatamente con Pippen. Il 33 biancorosso stava per ripensarci e tornare in campo, ma all’ultimo momento Phil lo mandò al diavolo e diede nuove istruzioni. Pippen si accomodò sul pino.
Kukoc da tre, fronte a canestro, segnò il canestro della vittoria. 104 a 102, Bulls. Nessuno si accorse di quanto era avvenuto sulla panca dei Bulls. Lo rese noto lo stesso Jackson in conferenza stampa per mettere Pippen di fronte alle sue responsabilità.
Scottie negli spogliatori si scusò con la squadra: “Ero frustrato. Non sapevo quel che facevo. Per fortuna Toni ha messo quel tiro e ciò dimostra che Phil aveva ragione”.
In gara 4 ci fu la risurrezione di Pippen, che trascinò i Bulls alla vittoria. Chicago si impose di 12 punti in una partita che sembrò segnare anche la successiva gara cinque. Il play dei Knicks Derek Harper e il panchinaro dei Bulls Jo Jo English avevano infatti dato il via ad una rissa. I due, rotolandosi a terra, erano finiti ai piedi del commisioner David Stern, presente al Chicago Stadium. Vennero sospesi per la gara successiva, ma mentre English per i Bulls contava poco, Harper era una gravissima perdita per New York.
Gara 5 verrà ricordata come la partita del clamoroso errore di Hue Hollins, l’arbitro. Con Chicago avanti di uno (86-85) a pochi secondi dalla fine, i Knicks avevano l’ultimo possesso. La palla arrivò a Hubert Davis nei pressi della lunetta. Davis caricò il tiro. Pippen andò a pressare su di lui, cercando la stoppata. Il tiro di Davis si rivelò sbagliato, ma incredibilmente Hollins chiamò fallo. Due liberi per New York. Due su due di Davis dalla lunetta. Vittoria Knicks: 87 ad 86.
Come da pronostico, Chicago si impose nella sesta gara casalinga, in una partita passata alla storia perché l’ultima nel celebre e glorioso Chicago Stadium.
Ma, sempre come da pronostico, New York si impose in gara sette al Garden, per 87 a 77, grazie all’ennesima ultima rimonta nel quarto periodo.
La prima dinastia dei Bulls finì quel giorno. Giustamente finì al Madison Square Garden, l’arena più famosa del mondo, il palcoscenico dove MJ più e più volte aveva trovato modo di esaltarsi e di scrivere pagine indelebili nella storia del basket. Giustamente quella dinastia finì contro i Knicks, il più acerrimo, teance e mai domo avversario che Chicago avesse mai incontrato durante le sue galappoate negli anni dei primi tre titoli.
Quella gara sette fu l’ultima partita in carriera per John Paxson.
Bill Cartwright alla fine della stagione andò a Seattle, mentre Horace Grant andò a rinforzare la giovane corazzata degli Orlando Magic. C’era aria di rivoluzione ai Bulls, mentre MJ sembrava tutto preso nelle sue partite a baseball.
La rivale di sempre, convinta invece di essersi liberata per sempre dell’incubo Bulls, superava in altre sette tiratissime partite Indiana ed approdava finalmente ad una finale NBA, dopo 31 anni.
Dall’altro lato ad attenderli c’erano gli Houston Rockets del fresco MVP stagionale Hakeem The Dream Olajuwon.
Pubblicato per Playitusa il
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Ci sono degli errori nell’articolo: Ewing mise a segno il canestro della parità (102-102)e Kukoc non segnò da tre ma da due; il tutto si può vedere nei filmati della partita su youtube…