9. La maledizione dello Spectrum
La stagione 1979-’80, quella che avrebbe inaugurato il più spettacolare decennio della storia della lega, era terminata con la conquista dell’anello da parte dei Lakers e la fantastica prova in gara 6 di finale della matricola Earvin Magic Johnson.
Una consacrazione per Los Angeles che tornava al titolo 8 anni dopo Jerry West e Wilt Chamberlain. Una consacrazione per Kareem Abdul Jabbar che, con 33 primavere sulle spalle, tornava a conquistare un anello, nove anni dopo il primo ed unico successo in maglia Bucks. Ma una consacrazione soprattutto per il fantastico rookie da Michigan State, Magic Johnson. Quella famosa gara 6 di finale era stata la sua apoteosi: 42 punti, 15 rimbalzi e 7 assist, ricoprendo tutti e cinque ruoli ed in special modo sostituendo l’infortunato Jabbar nello spot di centro.
Sull’altra costa, nel Massachussets, per l’eterna rivale dei Lakers, la stagione si era invece conclusa in modo contraddittorio. Da un lato la straordinaria Regural Season e il ritrovato entusiasmo del pubblico per i gloriosi Celtics. Dall’altro la bruciante eliminazione in finale di Conference, nonostante il vantaggio del fattore campo, contro gli altri eterni rivali: i Philadelphia Sixers. Un 4-1 che non aveva ammesso repliche.
I Celtics avevano chiuso la Regular col miglior record NBA, 61 vittorie a fronte di sole 21 sconfitte. Rispetto alla stagione precedente, in cui Boston si era tristemente adagiata all’ultimo posto dell’Atlantic, c’era stato un miglioramento di 32 partite. Un record assoluto per l’NBA, battuto, dieci anni dopo, solo dagli Spurs, quando alla stagione di esordio dell’ammriaglio David Robinson, migliorarono il proprio bilancio di 35 vittorie. Larry Bird aveva vinto il trofeo di Rookie of the Year (63 preferenze contro le appena 3 di Magic) ed era arrivato addirittura terzo nella votazione dell’MVP di stagione dietro due assoluti mostri sacri, quali Kareem Abdul Jabbar e Julius Erving.
Ciò nonostante, la stagione appena conclusa aveva lasciato un sapore agrodolce nella bocca dei celtici. La sonora batosta in finale di Conference contro i Sixers, era di quelle che bruciavano. La differenza fra le due squadre l’aveva fatta la maggior esperienza di Erving e compagni, la sorta di sudditanza psicologica che gli irlandesi di Boston sembravano nutrire nei confronti dello storico palazzetto dei Sixers, lo Spectrum (4 sconfitte su 4 partite, 2 in stagione regolare e 2 nei playoffs), ma soprattutto la battaglia a rimbalzo.I due lunghi di Philly, Darryl Dawkins e Caldwell Jones, avevano dominato sotto canestro per l’intera serie e soprattutto nella decisiva gara 5. La sera stessa dell’eliminazione contro Philadelphia, la dirigenza di Boston si era attivata per portare a casa un big man sotto canestro, indispensabile nelle roventi battaglie di playoffs. Non un’impresa disperata. Non per uno come Auerbach.
L’anno prima il gm dei Celtics aveva spedito a Detroit il veterano Bob McAdoo in cambio delle due prime scelte dei Pistons al draft del 1980. Magicamente quelle due prime scelte si erano tramutate nel pick numero 13 e addirittura nella prima chiamata assoluta.
Red Auerbach aveva già da tempo adocchiato un interessantissimo prospetto da Minnesota. Si trattava di Kevin McHale, giocatore bianco dotato di braccia lunghissime, che al college aveva evoluto nel ruolo di centro. McHale poteva portare quella presenza sotto canestro che era mancata nei playoffs appena terminati. Ma non era sufficiente. Il geniale e mitico gm dei Celtics propose uno scambio alla dirigenza di Golden State. La prima e la tredicesima scelta ai Warriors in cambio della terza e del giovane Robert Parish, un centro che si apprestava a vivere la sua quinta stagione in lega, con discreti numeri, ma senza aver mai lasciato particolarmente il segno.
Golden State accettò, pensando di portare a termine un affare colossale, ma alla luce di quanto accadde dopo, per la squadra californiana quella trade fu un vero fallimento.
In un sondaggio condotto da “The Sporting News” nel 1989, quella dei Warriors fu votata da 19 Generals Managers NBA, come la peggiore trade di sempre.
Col pick numero 3 di Golden State, i Celtics chiamarono McHale, costruendo le basi di quella frontline che farà la fortuna dei Celtics e segnerà profondamente l’NBA degli anni ‘80.
The Big Three, Larry Joe Bird, Kevin Edward McHale e Robert Lee Parish giocheranno per dodici stagioni insieme, vincendo tre titoli e venendo considerati da molti la migliore frontline nella storia di questo meraviglioso sport.
Per due campioni che arrivavano, altri due abbandonavano Boston per appendere definitivamente le scarpette al chiodo: Dave Cowens e “Pistol” Pete Maravich avevano illuminato per anni la scena dei parquet di mezza America. Adesso davano l’addio a Boston ed alla NBA.
La sconfitta in gara 5 contro i Sixers, per entrambi aveva rappresentato l’ultimo atto della loro gloriosa carriera. Un triste addio, soprattutto per Maravich che, se fosse rimasto, avrebbe potuto coronare il sogno di una vita. Quell’anello, che gli era sempre sfuggito.
Con i nuovi acquisti McHale e Parish e guidati dal genio di Larry Bird, appena alla sua seconda stagione da professionista, ma già un veterano per come si muoveva in campo, i Celtics partirono all’assalto di una nuova, promettente stagione.
Il loro starting five prevedeva il veterano Tiny Archibald nel ruolo di Point Man, Chris Ford in guardia, Larry Bird e Cedric Maxwell in ala. Robert Parish nello spot di centro. A dare un contributo dalla panca, M.L. Carr, Gerald Henderson e soprattutto il sesto uomo Kevin McHale. Bill Fitch, il sergente di ferro, come coach.
La sifda ai Sixers ed ai Lakers era aperta.
Boston non partì benissimo (3 vittorie nelle prime 6 partite), e Philly ne approfittò per prendere subito il comando della Eastern Conference. Ma pian piano le cose in casa biancoverde si assestarono. Furono trovati i giusti equilibri e i ragazzi di coach Fitch inanellarono una striscia di 12 vittorie consecutive, che rese la squadra consapevole dei propri mezzi. L’11 febbraio i Celtics fecero visita ai Lakers. Davanti agli occhi di Jerry West, che più volte aveva espresso dubbi sulle reali possibilità del biondo di French Link, Bird sfoderò una prestazione maiuscola: 36 punti, un impressionante 15 su 17 al tiro, 21 rimbalzi, 6 assist, 5 palle recuperate, 3 stoppate.
I Celtics violarono il Forum e Jerry West fece ammenda, dichiarando che non erano stati tanto i numeri di Bird ad averlo impressionato quanto la sua intelligenza cestistica, il fatto che capiva prima degli altri ciò che sarebbe accaduto in campo. Un leggero infortunio a Larry, una squalifica allo stesso 33 biancoverde per aver scazzottato Allan Bristow dei Jazz, l’ormai inevitabile doppia sconfitta allo Spectrum, non fermarono la marcia dei Celtics, che arrivarono all’ultima partita di regular season con una sola gara di svantaggio rispetto ai Sixers.E nell’ultima sfida di campionato Philadelphia era di scena proprio al Boston Garden. Vincere quella partita avrebbe significato per entrambe le squadre conquistare il miglior record della lega. Non solo avere il vantaggio del fattore campo nella molto probabile finale di Conference (cosa fondamentale soprattutto a causa degli evidenti problemi che i Celtics avevano allo Spectrum), ma anche (secondo le regole allora in vigore) saltare il primo turno di PO.Davanti a 18000 spettatori urlanti, Boston si impose su Philly per 98 a 94, grazie a 24 punti di Bird. E fu primo posto.
Al di là delle Rocciose, i Lakers avevano perso, a cusa di un infortunio al ginocchio, Magic per 45 partite, compromettendo quasi definitivamente la loro stagione.
Il numero 32 gialloviola ritornò in tempo per i playoffs, ma chiaramente non era in piena efficienza fisica. La “Magia” non funzionò in postseason e Los Angeles venne eliminata al primo turno (2-1 in una serie al meglio delle 3 partite) dai futuri finalisti di Houston, con un Magic che negli ultimi concitatissimi secondi di gara 3 fece registrare uno 0 su 2 dalla lunetta ed un air ball troppo corto anche per toccare il ferro.
“Tragic” Johnson titolarono i giornali il giorno dopo la clamorosa sconfitta. Quegli errori fecero rispuntare in qualcuno il dubbio che il ragazzo fosse più apparenza che sostanza. Ma quegli incolpevoli poveretti che lo pensavano, di lì a qualche tempo, avrebbero avuto ampio modo per ricredersi completamente.
Fuori dai giochi i Lakers, la finale della Eastern Conference fra Celtics e Sixers diveniva la sfida che avrebbe assegnato il titolo NBA. Si prospettava un’autentica battaglia. E la serie non disattese le aspettative.
I Sixers andarono subito a violare il Garden in gara 1. Una vittoria di misura (105-104), che significava rovesciamento del fattore campo. A questo punto, se Boston voleva approdare in finale avrebbe dovuto sfatare in un modo o nell’altro il tabù dello Spectrum.
Gara 2 diveniva per i Celtics subito una partita da dover vincere a tutti i costi. Larry Bird salì in cattedra e piegò Philadelphia con 34 punti, 16 rimbalzi e 5 assist per un 118-99 che non ammetteva repliche e che, per come era maturato, spostava l’inerzia della partita dalla parte biancoverde.
Uno ad uno. Palla al centro. Anzi, palla a due.
La terza e la quarta gara della serie si giocavano a Philadelphia. Si presentava per Larry e compagni l’occasione migliore per violare finalmente il palazzetto dei Sixers, almeno in una delle due partite e ristabilire così il fattore campo.
Ma i Celtics non violarono proprio nulla. Subirono ancora una volta la dura legge dello Spectrum e l’unico risultato che ottennero in quelle due gare esterne fu di veder annientate le loro speranze di titolo.
Dieci punti di scarto in gara 3, due in gara 4, e la squadra del Dottore si portò sul 3-1, mettendo una buona ipoteca per la conquista dell’anello. Lo Spectrum era rimasto tabù.
E Boston si ritrovava spalle al muro.
La statistica diceva che solo 3 volte su 67 occasioni la squadra in svantaggio per 3 a 1 era riuscita a ribaltare la situazione. Ma la statistica non aveva fatto i conti con la forza mentale dei Celtics e con la smisurata classe di Larry The Legend.
Nella casalinga e decisiva gara 5, il 29 aprile del 1981, i biancoverdi partirono male e a metà tempo erano già sotto di 10 (59-49). Sul Garden calò il silenzio. Non tanto per il risultato parziale, quanto per l’evidente impressione che la squadra di casa non fosse minimamente in grado di reggere l’urto con gli avversari, trascinati da un fantastico Erving.
Sembrava stesse andando in onda l’esatto replay della serie dell’anno prima. Uno ad uno dopo le prime due gare e poi Philadelphia che prendeva il largo nelle successive tre partite.Nel terzo quarto le cose migliorarono leggermente per i ragazzi di coach Fitch. Ma quando Andrew Toney, guardia dei Sixers, soprannominato “Lo Strangolatore di Boston” per via di alcune prestazioni maiuscole che aveva sfornato in carriera contro i Celtics, iniziò ad infilare alcune conclusioni dalla distanza, per gli “irlandesi” sembrava davvero finita.
La squadra di casa fece leva sul suo smisurato orgoglio e provò a reagire. Iniziò a rispondere colpo su colpo agli attacchi di Philadelphia, recuperando in piccola parte lo svantaggio.
Ma ad 1 minuto e 56 secondi dalla fine della partita, i Sixers erano ancora sopra di 6 punti (109-103) con palla in mano.
Solo un miracolo poteva salvare i Celtics.
E miracolo fu.
Maxwell stoppò Toney, dando il via al contropiede di Boston. Archibald in transizione depositò a canestro, subì fallo ed andò in lunetta per il tiro libero supplementare. Quando la palla, scagliata con mano sicura da Tiny, scosse la retina, gli spettatori del Boston Garden sembrarono risvegliarsi dal torpore e dalla rassegnazione che li aveva avvolti.
Boston era a meno 3 con un minuto e trenta secondi da giocare. Tutto era ancora possibile.
Nel frastuono generale, Phila eseguì la rimessa.
Boston iniziò a pressare a tutto campo ed i Sixers andarono nel pallone. Chiamarono due time out consecutivi per organizzare il gioco, poi al terzo tentativo di rimessa, Larry Bird rubò palla e mise a segno il canestro del meno uno. Il Garden adesso si era trasformato in un’autentica bolgia.
Ancora i Sixers alla rimessa. Ancora una palla persa, ancora Bird al tiro. Ma questa volta il ferro si oppose. Sotto canestro M.L. Carr volò a rimbalzo. Fece suo il pallone e subì fallo. Due su due dalla lunetta. 110 a 109 per i Celtics ed il palazzetto che quasi crollava giù.
I Sixers apparivano adesso in un evidente stato di confusione misto ad un palese nervosismo che impediva loro la lucidità necessaria per il controsorpasso. Una gara che era sembrata a tutti già vinta, stava scivolando via dalle loro mani in maniera imbarazzante.
Sulla rimessa di Philadelphia, la difesa di Boston continuò ad esercitare un’asfissiante pressione sugli avversari. I Sixers non riuscirono a costruirsi un tiro decente e quasi allo scadere dei 24 secondi, Bobby Jones, ostacolato da Parish, forzò la conclusione.
Palla sul ferro. Rimbalzo ancora di M. L. Carr, nuovo fallo su di lui e due tiri liberi che potevano voler dire vittoria. Il numero 30 biancoverde ne mise solo uno ma tanto bastò per fissare il risultato sul 111 a 109 finale.
Serie sul 3-2.
Si ritornava a Philadelphia. I Celtics non erano ancora morti. Eppure, nonostante l’entusiasmante vittoria sul filo di lana in gara 5, in pochi credevano nell’impresa di Boston. In quei due anni di epoca Bird, i biancoverdi avevano giocato otto volte allo Spectrum, rimediando altrettante sconfitte. Due di queste, non più vecchie di una settimana.
I Celtics soffrivano quel palazzetto, allo stesso modo in cui i Lakers soffrivano il Boston Garden negli anni ‘60 o allo stesso modo in cui Bird soffriva la velocità e le penetrazioni di Julius Erving.
Era il primo giorno di maggio del 1981, quando le due squadre scesero sul parquet di Philadelphia per gara 6.
Ancora una volta i Sixers presero il largo nella prima metà della partita.
Si arrivò all’intervallo con Philly che conducevano per 52-41, fra l’entusiasmo del pubblico sugli spalti. Ancora una volta sembrava fatta per Philly e forse ce l’avrebbero realmente fatta, se la dirigenza della squadra non avesse commesso un errore imperdonabile. Un po’ come quello dei palloncini appesi al soffitto del Forum nel ’69.
Durante l’intervallo sul tabellone elettronico apparve a più riprese la notizia che i tifosi locali avrebbero potuto acquistare i biglietti per le finali, subito dopo la gara.
Era un vero e proprio affronto per l’orgoglio celtico. Quando le squadre tornarono in campo una nuova luce brillava negli occhi dei giocatori in maglia verde. Boston cominciò il terzo quarto alla grande. E la partita si scaldò.
Maxwell litigò veementemente con un tifoso, scatenando l’ira del pubblico di casa. Si creò una sorta di strana elettricità nell’aria. Una tensione, sia sul parquet che sugli spalti, che rendeva la partita ancora più incerta ed emozionante.
Cedric Maxwell reagì agli insulti portando la sua squadra in vantaggio, ma i Sixers non mollarono. Prese vita una vera e propria battaglia all’ultimo punto. A pochi secondi dalla fine della partita, i Celtics erano avanti di 2 (100 a 98) ma Philadelphia aveva l’ultimo possesso.
La palla arrivò nella mani dello “strangolatore” Toney.
Andrew partì in palleggio e penetrò in aerea, sfidando i lunghi in maglia biancoverde. Il duro McHale non si tirò indietro.
Il rumore dello stoppone clamoroso che Kevin rifilò alla guardia dei Sixers, si narra, riecheggi ancora nel silenzio attuale dello Spectrum. Poi ci fu solo la sirena che sanciva la fine dell’ostilità. I Celtics avevano finalmente sfatato la maledizione. Tutto era rimandato alla decisiva gara 7. Al Boston Garden.
Philadelphia provò a partire ancora una volta molto forte, ma questa volta Boston non pareva per nulla disposta a lasciar andar via gli avversari. La partita rimase abbstanza equilibrata (sebbene con i Sixers costantemente in vantaggio) fino a metà ultimo quarto, quando gli ospiti sembrarono allungare. A 5 primi e 23 secondi alla fine, il punteggio era 89 ad 82 per Doc e compagni.
Quel che avvenne dopo appartiene di diritto ai libri di storia. Philadelphia realizzò un solo punto in quei lunghissimi cinque minuti e mezzo ancora da giocare e non riuscì più riuscire a segnare dal campo.
La difesa di Boston alzò un muro di fronte al proprio canestro. Larry Bird rubò 3 palloni che si tramutarono in altrettanti canestri, e i Celtics si portarono sul meno 1 (89-90).
Mancava 1 minuto e 3 secondi alla fine della partita e la sfera era nelle mani dei Sixers. Darryl Dawkins forzò un tiro che avrebbe portato avanti i suoi di 3. La palla ballò sul ferro. Poi uscì.
Larry catturò il rimbalzo, si lanciò in contropiede sul lato sinistro del campo e concluse con un morbido tiro di tabellone. Il rumore della retina sancì il primo sorpasso dei Celtics. 91 a 90.
“In quei secondi finali non c’era nessun altro posto al mondo dove avrei voluto la palla se non fra le mie mani!” dichiarò il numero 33 a fine gara.
Era il primo vantaggio di Boston nell’arco di tutta la partita. Arrivava proprio a pochi secondi dal termine ed era maturato grazie all’immensa classe del suo giocatore simbolo.
I giocatori di Philadelphia si guardarono attorno sconcertati. Le loro espressioni erano una tragica fotografia dello stato di shock in cui si ritrovavano. Avevano nuovamente gettato al vento una straordinaria occasione. Nelle ultime 3 gare, erano stati sempre in vantaggio sin dalla palla a due, salvo poi subire il ritorno dei Celtics nei secondi decisivi.
Il suono della sirena decretò il trionfo di Boston. I tifosi si riversarono sul parquet fra l’esultanza generale. I Celtics tornavano ad una finale NBA dopo 5 anni, con una squadra completamente diversa e con un nuovo profeta. Larry Joe Bird.Adesso tra loro ed il suo primo titolo NBA restavano solo gli Houston Rockets.
Pubblicato per Playitusa il
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