3. Quando Reed rispose presente
La stagione 1969-’70 fu una stagione molto particolare per l’intera NBA. Era la prima senza William Felton Russell, per tutti Bill. Il signore degli Anelli. Colui che aveva rivoluzionato il basket, i suoi concetti, le sue tattiche, la sua psicologia.
Per tredici lunghissimi anni, ogni stagione era inizata con la consapevolezza che la squadra da battere erano i Celtics. Ogni stagione era finita (salvo due eccezioni) con Boston sul tetto del mondo e Bill Russell suo immenso profeta. Una dittatura, di più, un incubo.
Il campionato si aprì senza quella, per taluni rassicurante, per altri frustrante, certezza. Il trono e lo scettro del Re erano rimasti vacanti. La squadra più accreditata a prenderne in consegna l’eredità dei Celtics, era ovviamente Los Angeles.
La regular season dei Lakers non iniziò comunque nel migliore dei modi. Dopo nove partite, il trentatreenne Chamberlian si infortunò gravemente ad un ginocchio e dovette far ricorso ad una delicata operazione, mettendo a rischio l’intera stagione, playoffs inclusi. Il resto della season fu altalenante, 46 vittorie e 36 sconfitte, secondi nella Western alle spalle degli Atlanta Hawks.
Ma il recupero del centro gialloviola fu miracoloso. Rientrò per le ultime 3 partite della stagione, facendo capire a tutti di essere estremamente pronto per i playoffs. In finale di Conference, i Lakers spazzarono via gli Hawks con un sonante 4-0 e si presentarono all’ennesima finalissima con tutti i favori del pronostico.
Dall’altra parte c’erano i lanciatissimi New York Knicks, che avevano chiuso la Season con un ottimo record di 60 vittorie e 22 sconfitte (primi assoluti nella lega) e che avevano nell’asse play-centro, la colonna portante della squadra.
Il terzo anno Walt Frazier, playmaker dalle mani velocissime dalle spiccate attitudini difensive ed il quinto anno Willis Reed, pivot non altissimo ma dall’impressionante forza fisica, ne erano i leader assoluti. Il coach era Red Holzman, uno il cui motto era semplice: “Hit the open man”. In altre parole se c’è un compagno libero passa la palla.
Il geniale Red puntava tutto sul gioco di squadra e quei Knicks, nonostante le ottime individualità, facevano del collettivo la propria forza. Attaccavano in cinque. Difendevano in cinque. La difesa era un altro pallino di Holzman che fra le altre cose era solito ripetere: “Il basket non è l’ingegneria atomica. Bisogna mettere detro la palla da una parte del campo e difendere il canesto dall’altra. E bisogna giocare di squadra”.
Semplice, no?
Quell’anno i ragazzi della Grande Mela avevano messo a segno oltre 105 punti a partita, ma la difesa era stata la loro arma in più. Centro di riserva di quei Knicks era Phil Jackson, nome poi divenuto “piuttosto” famoso fra i coach. Fu in questo periodo sotto l’attenta guida di Holzman che Jackson pose le basi della sua filosofia cestistica fatta di difesa dura e incentrata sul famoso (o famigerato) attacco democratico con cui qualche anno dopo proverà a sfondare nella CBA.
In finale di Conference i Knicks si liberarono con un semplice 4-1 dei Bucks dell’anziano play Oscar Robertson e della giovanissima matricola Lew Alcindor, colui che qualche anno dopo sarà noto in tutto il mondo come Kareem Abdul Jabbar.
Fu così che le due più grandi città degli Stati Uniti, i due più grandi mercati d’America, si ritrovarono l’un contro l’altro armate in una finale NBA. Finale che dalle parti dell’Empire State Building mancava ormai da 17 lunghissimi anni.
L’intera serie fra NY e LA, sarà una di quelle che vengono ricordate con l’appellattivo di storiche. Una delle più grandi, belle e appassionanti finali che la National Basketball Association ricordi, con l’assoluta apoteosi nella storica e decisiva gara 7.
In molti avevano dubbi sulla reale tenuta fisica di Reed contro un colosso come Chamberlain, trentaquattrenne, ma pur sempre dominante sotto i tabelloni. Troppa differenza di altezza, troppa differenza di esperienza. Dubbi che ben presto verranno spazzati via.
Gara 1 al Madison fu un autentico show dei Knicks, che si imposero per 124 a 112, con un Reed decisamente sugli scudi. Per lui 37 punti, 16 rimbalzi e 5 assist.
In gara 2 ci fu la rivincita dei Lakers, che riuscirono a ribaltare il fattore campo, imponendosi per 105 a 103, con Wilt che all’ultimo secondo stoppò proprio Reed che volava a canestro per il pareggio.
Gara 3 al Forum di Los Angeles fu una di quelle partite che contribuì alla leggenda di questa favolosa serie.
I Lakers costruirono un vantaggio di 14 punti a metà gara, ma i Knicks rimontarono. A due minuti dalla sirena la situazione era di parità. Reed segnò un libero. West rispose da due, dando ai Lakers un punto di vantaggio.
Dick Barnett segnò ancora da due, riportando i Knics sopra di uno a 18 secondi dalla fine. Subito dopo però commise fallo su Chamberlain, che fece 1 su 2 dalla linea, impattando il risultato sul 100 pari.
A tre secondi dalla fine DeBusschere siglò il 102-100 per i Knicks. I Lakers avevano esaurito i time out a disposizione. A quel punto, convinto che la partita fosse finita, Chamberlain passò l’arancia a West senza curarsi di quello che sarebbe avvenuto dopo. Voltò le spalle all’azione ed iniziò ad incamminarsi verso gli spogliatoi. Il boato del pubblico del Forum lo bloccò.
West aveva dribblato per tre volte Reed che cercava di chiudergli la strada e, poco oltre la linea di metà campo, aveva fatto partire il classico tiro della disperazione. Circa sessanta piedi di distanza. Solo rete.
Fosse esistito all’epoca, come nell’ABA, il tiro da tre punti, i Lakers avrebbero vinto la partita, invece quel magico canestro aveva rappresentato solo la parità.
I Knicks si imposero comunque al supplementare, ristabilendo il fattore campo, ma quel tiro di West ha fatto epoca e per molti anni al Forum la posizione da cui era stato scagliato, era rimasto segnato con una crocetta.
Gara 4 finì ancora una volta al supplementare. Ma stavolta si imposero i Lakers, grazie a 37 punti e 18 assist di West e 30 punti di Baylor.
Gara 5 è storica almeno quanto gara 3. Dopo 8 minuti del primo quarto, Reed si infortunò gravemente alla coscia destra e fu costretto a lasciare il campo, nel silenzio assoluto del Madison. Red Holzman giocò la carta a sorpresa. Inserì Bill Hoskett, un centro che non aveva ancora giocato un minuto di playoffs per marcare Chamberlain. Hoskett ci mise impegno, volontà e sudore, ma all’intervallo i Lakers erano avanti di 13.
Nella ripresa Holzman provò con una zona offensiva 3-2, che aveva come fine far uscire Chamberlain dall’area dei 3 secondi. I Lakers non ci capirono più granchè. Iniziarono a perdere palloni su palloni e i Knicks si presentarono all’ultimo periodo sotto di soli 7 punti.
L’ultimo quarto si giocò in una bolgia infernale. Per tutti i 12 minuti di gioco, i 19.500 spettatori del Madison cantarono a squarciagola “Let’s go Knicks! Let’s go Knicks!”.
I Lakers (30 palle perse complessive per loro), andarono completamente in pallone e New York riuscì ad imporsi in uno storica vittoria: 107-100. Negli ultimi due quarti, Chamberlain aveva realizzato solo 4 punti.
L’artefice della vittoria era stato il più grande giocatore della storia di New York, quel Walt Frazier (21 punti, 12 assist, 7 rimbalzi per lui) che, seppur immenso difensore, aveva iniziato la serie con gravi problemi (soprattutto di falli) nella marcatura del grandissimo Jerry West, ma che pian piano ne stava prendendo le misure.
Anni dopo, DeBusschere definirà quella gara come “One of the greatest basketball game ever played”.
Gara 6 a Los Angeles fu ovviamente tutta un’altra storia. Chamberlain mise a referto 45 punti, conditi da 27 rimbalzi e i Lakers passeggiarono sui resti dei Knicks ancora privi di Reed per 135 a 113, impattando la serie sul 3 pari.
Tutto era rimandato alla decisiva gara 7. Data, venerdì 8 Maggio 1970. Luogo, Madison Square Garden, New York.
I giocatori dei Knicks entrarono in campo per il riscaldamento senza sapere ancora se Reed sarebbe stato o meno della partita. I Lakers, che avevano visto Reed trascinarsi la gamba negli spogliatoi, erano entrati in campo con la certezza che Reed non avrebbe giocato.
Il Madison trasudava rassegnazione. Quasi impotenza. Anche quell’anno il sogno del titolo, tante volte sfiorato, ma mai ghermito, pareva destinato a frantumarsi al suolo. E l’anello pareva destinato a prendere altre vie, lontane migliaia di miglia da New York.
Tre minuti dall’inizio della disfatta e lo storico palazzetto dei Knicks veniva scosso da un fremito.
Dal tunnel degli spogliatori sbucò una figura in tuta bianca. Zoppicava. Il fremito divenne mal celata eccitazione quando la figura si diresse verso metà campo. Willis Reed prese la palla in mano, si avviò verso un canestro e fece partire un tiro di riscaldamento. L’eccitazione era già divenuta un insistente vociare.
Nel momento in cui la sfera scosse la retina, il vociare si trasformò in un boato che fece vibrare il palazzetto fin dentro le fondamenta ed i giocatori in maglia gialloviola, fermi ad assistere impietriti alla scena, fin dentro le ossa. Si guardarono confusi. E quando ripresero il riscaldamento buona parte della loro sicurezza era già disciolta.
“Quello è stato un momento che non scorderò mai” dirà in seguito Frazier. “Quando ho visto i Lakers così confusi di fronte a quella scena, ho capito che sarebbero stati nostri!”.
Willis Reed si era fatto imbottire di antidolorifici negli spogliatoi. Il medico dei Knicks, seppur contrario, gli aveva fatto diverse iniezioni alla coscia.
“Volevo giocare!” commenterà. “Era gara 7 di finale, il più grande momento per ogni giocatore di basket, quello che avevo inseguito fin da quando ero arrivato nella NBA. Non avrei voluto un giorno di venti anni dopo guardarmi allo specchio e dirmi che avrei voluto ma non potevo!”.
Reed si ritrovò davanti Chamberlain per la palla a due. Non provò neanche a saltare. Rimase immobile. Eppure i suoi primi due possessi si tramutarono quasi per magia in due canestri. Quindi si dedicò esclusivamente a limitare il colosso in maglia gialloviola. Diciassette volte i Lakers servirono a centro aerea Chamberlain. Ma Reed era sempre lì. Lo infastidiva, lo marcava, lo spingeva. E con lui addosso Chamberalain tirò con un misero 2 su 9 dal campo.
Reed chiuse la sua gara con 4 punti, un 2 su 5 al tiro, 3 rimbalzi e 4 falli. Ma tanto bastò per spostare l’inerzia della partita dalla parte dei Knicks. Per rendere elettrica l’atmosfera in campo e fuori. Per spezzare la fiducia dei Lakers e far sì che la paura si insinuasse subdolamente dentro di loro e facesse breccia nella loro sicurezza. Un impatto emotivo nella gara senza precedenti. Chamberlain, visibilmente scosso, tirò con 1 su 11 dalla lunetta.
Il resto dell’opera la portò a termine uno stratosferico Walt Frazier, in quella che viene ricordata come la più grande prestazione di un singolo giocatore in una gara 7 di finale.
Mise a segno 36 punti, conditi da 19 assist e 7 rimbalzi, 12 su 17 dal campo e 12 su 12 ai liberi. Ogni altro commento sarebbe superfluo. A metà secondo quarto, segnò un importantissimo canestro, in faccia a West, che commise anche fallo per il più classico dei giochi da tre punti, distruggendo definitivamente il morale dei Lakers.
Los Angeles non riuscì mai ad entrare in partita e New York chiuse la gara sul 113-99. Vinse il suo primo anello.
Willis Reed fu procalmato MVP della finale, dopo che nello stesso anno aveva già portato a casa l’MVP dell’All Star Game e quello di stagione regolare.
D’altro canto ancora una volta i Lakers vedevano il titolo sfuggir loro di mano in extremis. Ancora una volta uscivano sconfitti da una finale. Ancora una maledetta gara 7. Sembrava un incubo infinito, eppure non avrebbero dovuto aspettare ancora molto prima di ghermire l’agognato anello. In fin dei conti il 1972, l’anno della gloria, era dietro l’angolo.
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