19. The first is the sweetest
Era domenica.
Una calda domenica di inizio giugno dell’anno 1990.I Detroit Pistons avevano appena eliminato nella decisiva gara 7 di finale della Eastern Conference gli odiati Chicago Bulls. Volavano verso una finalissima che li avrebbe consacrati per il secondo anno consecutivo sul tetto del mondo.
Era domenica. Era sera. E faceva caldo. Non il caldo torrido che ben presto avrebbe incendiato da costa a costa tutti gli States, dai grattacieli di Manhattan, alle spiagge della California.
L’aria non era ancora così insopportabilmente afosa, come solo ad agosto sa essere. O almeno non a New York, non a Los Angeles, nè tantomeno in quel di Detroit. Ma nella città del vento, a Chicago, Illinois, sì. Il clima era rovente, l’aria irrespirabile, l’atmosfera opprimente.
Era domenica. Il 3 giugno per la precisione. Ed era ormai ufficiale: Michael Jordan era malato. Soffriva di uno strano morbo che aveva colpito altri campioni prima di lui. Una malattia passata alla storia sotto il nome di Sindrome di Wilt Chamberlain e che ti portava ad essere un giocatore spettacolare, un campione invidiabile, un realizzatore instoppabile, ti portava a dominare il mondo, ad inanellare caterve di punti, a condurre la squadra attraverso le più impervie partite, a rendersi protagonista delle più mirabolanti imprese, ma ti impediva di vincere l’anello.
Era domenica. Era il 1990. Da diciannove lunghissimi anni, dai tempi di Jabbar (anno di grazia 1971), una squadra col miglior realizzatore della lega non riusciva a vincere il titolo. E Jordan nelle ultime quattro stagioni era stato di gran lunga il top scorer della NBA.
Aveva vinto il trofeo di rookie dell’anno nel 1985, quello MVP di stagione, di miglior difensore della lega. Quattro volte inserito nel primo quintetto NBA, tre nel primo quintetto difensivo. Ma aveva ancora le dite spoglie di qualsiasi gioiello.
Nelle ultime due stagioni, i Bulls avevano perso in finale di Conference contro i Pistons, ma la cosa più preoccupante era che non avevano mai dato l’impressione di poter superare gli avversari. Asfissiati dalla superba difesa dei Bad Boys, intimoriti dalla loro cattiveria, incapaci di opporsi alle celeberrime Jordan Rules che in quei due anni avevano toccato l’assoluta perfezione.
Ciò che ai ragazzi di Chicago era maggiormente mancato non era stato l’apporto di un Jordan sempre su ottimi livelli, quanto l’apporto della squadra e soprattutto della seconda stella, quel Pippen dal carattere fragile e dalla psiche difficile.
Durante la serie del 1989, Scottie si era giustificato davanti alla stampa di una sua terribile prestazione contro i Pistons, adducendo una improvvisa emicrania che che lo aveva tormentato per l’intera partita. Esattamente un anno dopo e precisamente quel famigerato 3 giugno, stesso luogo, stessa serie, stessi rivali, ed una nuova debacle personale del numero 33 nella decisiva gara 7.
Al termine dell’incontro, un Jordan furioso e stremato per aver lottato da solo contro tutto e tutti, un Jordan malato, divorato dalla sindrome che gli precludeva qualsiasi vittoria, col tabellino della partita in mano, circondato dai giornalisti, si rivolse a Pippen, guardandolo di sbieco: “Mal di testa anche oggi, Scottie?”. Nella sua voce la pungente ironia di una rabbia mal celata.
Storie di vita e di spogliatoio di una squadra incapace di vincere. Storie di frustrazione e di certezze cadute. Storie di una sindrome, forse incurabile.
Ma arrivò la stagione 1990-’91. Quella della consacrazione e del riscatto. E la sindorme di Chmaberlain divenne solo un ricordo. Uno sbiadito e paradossale ricordo, al cui solo pensiero oggi non si può non trattenere un sorriso.
I Bulls vinsero 61 partite, stabilendo il nuovo record di franchigia. Jordan conquistò il secondo MVP della sua carriera, nuovamente primo quintetto NBA e primo quintetto difensivo. Ma anche il quinto titolo di capocannoniere, a dispetto dei puristi, dei superstiziosi, degli scettici, degli amanti delle statistiche e degli storici che storcevano la bocca.
In pochi potevano saperlo, ma quello che era stato finora non contava più nulla. Perchè MJ si apprestava a riscrivere la storia del basket.
Al primo turno di PO i Bulls sweepparono i New York Knicks in piena ricostruzione. Poi un rotondo 4-1 a Philly, infine la finale di Conference.
Gli avversari erano ovviamente, i temuti ed odiati Pistons, pronti all’inesorabile ed inevitabile guerra. Ma stavolta la serie non incominciò neanche.
I Bulls finalmente non erano più solo Jordan. Erano una squadra. Quattro partite a zero. I Pistons provarono a salvare la faccia in una casalinga gara 4, ma persero faccia ed onore quando Isiah Thomas condusse i suoi compagni negli spogliatoi senza aspettare il suono della sirena per evitare di salutare e rendere omaggio agli avversari per la prima volta vincitori.
In finale i Bulls trovarono niente poco di meno che i Los Angeles Lakers alla nona apparizione in finale negli ultimi 12 anni.
I Lakers nell’ultimo atto della Western Conference avevano approfittato della loro esperienza per far fuori i più giovani e forti Trail-Blazers. Fu una sorpresa, ma forse il Destino aveva agito per il meglio. Era giusto che in finale arrivasse Los Angeles. Arrivasse Magic. Solo così la consacrazione sarebbe potuta essere sancita. Solo così il passaggio di consegne sarebbe stato naturale. Netto, spontaneo. E la sindrome completamente debellata.
Ovviamente il fulcro dell’intera serie ruotava sullo scontro ravvicinato fra Magic e MJ, i due più grandi sportivi del momento negli States. Due simboli, due uomini larger than life.
Le profetiche parole di Ervin Magic Johnson poco prima dell’inizio dell’attesissima sfida: “Gravano molte cose sulle nostre spalle, molto di più di una semplice serie finale. Abbiamo addosso più pressione noi che qualsiasi altro giocatore nella lega. Ma sia chiara una cosa. Non sono qui per confrontarmi con Jordan, perché vincerebbe lui. Il futuro è suo. Sono qui per aiutare la mia squadra. Per dettare i tempi del gioco”.
Eppure, un po’ contro tutti i pronostici, i Lakers si imposero in gara 1 al Chicago Stadium, rovesciando subito il fattore campo. E la sindrome di Wilt Chamberlain, quell’oscuro malanno, tornò subdola e terribile.
I gialloviola si imposero in un finale trhiller, facendo valere la loro esperienza e spazzando di colpo i pronostici sfavorevoli, nonchè la verve e l’atletismo dei Bulls.
A quattordici secondi dalla fine Chicago conduceva 91 ad 89. Ma Sam Perkins mise la tripla che portò i suoi sopra di uno: 92-91.
I Bulls fecero girare palla, mentre i Lakers andarono in pressione sul portatore. A 2.7 secondi dalla fine Jordan provò la tripla da 17 piedi di distanza. Sbagliò. Byron Scott volò a rimbalzo e subì l’immediato fallo. Mise uno dei due tiri liberi. Poi Pippen provò il velleitario tiro della disperazione da 50 piedi. Gara 1 era dei Lakers.
Michael aveva segnato 36 punti, top scorer della partita. Top scorer durante la regular season. Top scorer dei playoffs. Top scorer nella storia della lega per media punti. Ma i Bulls avevano perso la prima gara casalinga della loro prima finale.
Sic transit gloria mundi.
L’unico altro “Toro” in doppa cifra era stato Scottie Pippen con 19 punti.
Dall’altra parte Magic era andato in tripla doppia: 19 punti, 11 assist e 10 rimbalzi. Ma la vera differenza l’avevano fatto i lunghi di L.A. che avevano segnato da sotto 60 punti contro gli appena 31 degli avversari. Giocatore fondamentale si stava rivelando il centro dei Lakers che pian piano stava assurgendo agli onori della cronaca. Il suo nome era Vlade Divac, giovane serbo a cui era toccato l’impietoso compito di sostituire l’icona assoluta della NBA, quel Kareem Abdul Jabbar che due anni prima, all’età di 41 anni aveva appeso le scarpette al chiodo. Per Divac quelle finali furono una consacrazione: 18.2 punti, 8.8 rimbalzi e 2.4 stoppate le sue medie.
La sconfitta in gara 1 non sembrò tuttavia turbare più di tanto il numero 23 che scherzò con la stampa: “I felt good, but hey, they all fell good!”.
Anche Magic decise di buttarla sull’ironia: “Michael è la persona più spaventata degli Stati Uniti in questo momento. Basta un mio respiro per fermarlo”.
Gara due fu ribattezzata negli States come The perfect match. La partita perfetta. Secondo molti la migliore partita di sempre dei futuri campioni in carica.
I Bulls tirarono durante tutto l’arco della gara col 62% dal campo (50 su 81). Il primo tempo si era chiuso appena sul 48 a 43, Chicago. Un più 5 che lasciava il match apertissimo ad ogni soluzione. Ma nel terzo quarto i ragazzi dell’Illinois tirarono 20 volte dal campo, infilando 17 canestri (85%) per un parziale di 38-26, che spezzò definitivamente la gara e forse la serie.
Michael segnò 33 punti, tirando con 15 su 18 dal campo e mettendo una serie di 13 canestri consecutivi, tra cui, forse, il più bel canestro della sua carriera, uno dei migliori della storia della NBA al pari di quello di Erving in gara 4 del 1980 contro i Lakers o quello di Bird nella finale del 1981 in gara 1 contro i Rockets. Un canestro che la NBC ripropose senza fine durante tutta la serie e nelle finali degli anni a venire. Un canestro che riassumeva tutte le qualità che facevano di Jordan un giocatore unico al mondo.
MJ eluse il suo difensore con una finta, entrò in area e staccò per la schiacciata. La sfera nella sua mano destra. A.C. Green volò per la stoppata. Altri giocatori avrebbero smazzato un assist volante o avrebbero proiettato la palla verso il canestro oltre le braccia del difensore. Ma non Jordan. In volo, passò la palla dalla destra alla sinistra, evitò con uno straordinario movimento del corpo il contatto con Green ed improvvisamente l’ala gialloviola era alle sue spalle. Michael depose dolcemente a canestro.
“Oh! A spec-tac-ular move by Michael Jordan!” l’allibito commento di Marv Albert, sin da subito consegnato alla storia di questo sport.
Ma questa volta i Bulls non furono solo Michael Jordan.
Pippen e Grant misero 20 punti a testa. Paxson 16 e Billone Cartwright 12. In più Scottie si rivelò grandioso difensore su Magic, tenendolo a 4 su 13 dal campo.
La serie slittò a LA sul risultato di 1 a 1. Tre gare al Forum, crocevia fondamentale per il destino dell’anello. Per la maggior parte di gara 3 Jordan giocò in maniera molto compassata, appena normale, ma quando i Bulls ebbero bisogno di lui, rispose presente.
Nel terzo quarto i Lakers misero un parziale di 18-2 portandosi avanti di 13. Chicago non cadde al tappeto e rispose con un parziale di 20-7, che riequilibrò l’incontro. Una tripla di Divac diede il più due ai Lakers a 10 primi e 9 decimi dalla fine: 92-90.
Sulla rimessa, Jordan ricevette palla e superò 1 contro 1 Byron Scott, quindi siglò il canestro del pareggio, mandando la partita all’Overtime.
Nel supplementare MJ segnò 6 dei 12 punti dei Bulls, mentre i Lakers ne segnarono solo 4 complessivi. Chicago si impose per 104 a 96. Fattore campo ristabilito.
I Lakers soffrirono la difesa dei Bulls anche in gara 4, dove fecero registrare un 36% al tiro, compreso un terribile 1 su 15 di Perkins.
La partita fu decisa nei due quarti centrali, quando L.A. fu costretta a tirare con 5 su 20 e 7 su 21 dal campo. Il solo Divac (27 punti e 11 rimbalzi) in luce per i suoi.
I Bulls vinsero la quarta gara per 97 a 82. Si portarono sul 3 a 1 nella serie ed ipotecarono così l’anello.
Gara 5 si presentava come una mera formalità, oltre che per il risultato nella serie, anche per la netta differenza di forze che era risultata evidente nelle prime 4 gare. In più i Lakers scesero in campo senza Worthy e Scott provati dagli infortuni.
Ma L.A. non cadde senza prima combattere.
Elden Campbell dalla panca segnò 13 dei suoi 21 punti complessivi solo nel primo quarto.
I Lakers andarono all’intervallo sopra di uno.
Magic Johnson realizzò la sua trentesima tripla doppia in carriera in una partita di PO con 16 punti, 20 assist e 11 rimbalzi. Sarebbe stata la sua ultima finale. E la giocò da campione, nonostante l’avversario più forte ad ostacolargli il cammino.
Magic stabilì il record di assist per una serie finale su 5 partite (62) e concluse la serie con 18.6 punti, 12.4 assist e 8 rimbalzi.
Gara 5, sul 93 pari, fu decisa da Paxson che segnò 10 dei suoi 20 punti negli ultimi 4 minuti. Jordan mise assieme 30 punti, 10 assist e 5 recuperi, ma per una volta non fu il miglior scorer della partita, superato dal compagno di squadra Scottie Pippen (32 punti).
I Bulls finalmente erano una squadra vera e completa. Una squadra degna di vincere l’anello. Durante l’arco delle 5 partite, avevano tirato col 52,7% dal campo e con l’82,6% dalla linea della carità. Diedero 139 assist e recuperano 49 palloni. Limitarono L.A. a soli 458 punti complessivi (record negativo per una serie di 5 gare). La coppia Jordan-Pippen giocò inoltre una splendida serie difensiva su Magic, limitandone l’apporto offensivo e portandolo a perdere 22 palloni complessivi.
MJ fu eletto unanimemente, con 11 voti su 11, MVP delle finali. Era stata la sua prima finale. Era stato il suo personalissimo biglietto da visita con cui aveva fatto ingresso nell’elite dei grandi campioni della storia della lega.
Nell’arco di tutta la serie aveva messo insieme cifre spavontose: 31.2 punti, il 56% dal campo e l’85% dalla lunetta. In più, ben 11.4 assist, 6.6 rimbalzi, 2.8 recuperi ed 1.4 stoppate.
Quell’11 giugno 1991, giorno di gara 5, se qualcuno avesse predetto che MJ avrebbe giocato almeno altre 3 serie finali su livelli persino più elevati, sarebbe stato qualificato come “assolutamente folle”. Subito dopo la sirena, Michael andò negli spogliatori del gloriosissimo Forum. Quelli stessi spogliatoi dove avevano gioito, pianto, vinto, perso, trionfato e deluso giocatori come Russell e Cousy, West e Magic, Bird e Jabbar, Erving e Moses ed anche lui… quel Wilt Chamberlain, dalla cui sindrome MJ sembrava definitivamente guarito. Michael andò negli spogliatoi del Forum. Il padre James alla sinistra, la moglie Juanita alla destra. E pianse. Pianse di gioia.
“I’m numb” le sue prime parole da campione del mondo.
Pubblicato per Playitusa il
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