13. Il re è morto. Evviva il re!
Ci sono squadre che costruiscono le proprie vittorie ancor prima che sul campo, nella testa dei loro avversari.
Ci sono squadre avvolte da un tale alone di leggenda, un’aurea di invincibilità, che batterle diventa un’impresa ben più improba di quanto le reali forze in gioco possano dire.
Ci sono squadre che iniziano a vincere perché più forti e continuano a farlo anche quando sul campo non lo sono più, perchè quella strana e famosa “sudditanza psicologica” non è una locuzione inventata per gli arbitri del campionato di calcio nostrano.
I Boston Celtics erano una di queste squadre. Almeno fino all’anno 1985.
Il timore reverenziale che gli avversari avevano giocando al Boston Garden, l’aura di assoluta invincibilità che la squadra si era creata attorno, avevano mietuto più vittime di quanto fossero stati in grado di farne nel corso degli anni gli stessi Russell, Cousy, Havlicek, Bird e compagni.
Fino al 1985, il ruolino di marcia dei Celtics era stato impressionante. Sedici finali disputate. Quindici vittorie. Una sola sconfitta.
Wilt Chamberlain, Jerry West, Elgin Baylor, Paul Westphal, Kareem Abdul Jabbar, lo stesso Magic Johnson si erano dovuti a turno inchinare alla dura legge dei ragazzi del Massachussets. Solo Bob Pettit, l’ala di St. Louis, era riuscito nella mitica impresa di sconfiggere Boston in una finale. Era accaduto nel 1958. Ere precedenti. E Russell le partite chiave di quella serie non le aveva neanche giocate per infortunio.
Nel 1969 i Lakers erano nel complesso una squadra di livello superiore rispetto ai Celtics di un Russell in declino ed alla sua ultima stagione NBA. Ma avevano perso la finale in un’incredibile ed emozionante gara 7.
Nel 1974 i Bucks potevano contare su un Jabbar devastante, all’apice della sua immensa carriera. Ma si erano dovuti inchinare di fronte ad una squadra appena ricostruita.
Nel 1976, i Suns erano andati vicinissimi alla colossale impresa, ma avevano perso una drammatica e decisiva gara 5 dopo tre supplementari.
Nel 1984, ancora i Lakers erano da tutti giudicati più talentuosi dei Celtics. Ma ancora una gara 7 era sata fatale per loro, dopo che erano arrivati ad un soffio dal portarsi sul 2 a 0 nelle due gare esterne.
Era stata la loro settima finale contro Boston. La loro settima sconfitta.
Magic aveva perso nettamente il duello col suo rivale Bird.
La notte dopo gara 7, il play dei Lakers aveva ricevuto la visita di Isiah Thomas e Mark Aguirre. Erano rimasti a parlare fino all’alba. Di musica, di macchine, dei vecchi tempi. Ma nessun accenno alla partita appena terminata. Gli ultimi secondi di quella gara, con Bird che batteva Magic e andava a depositare il canestro della vittoria erano negli occhi di tutti. Erano una ferita ancora troppo fresca per il Magico da L.A.
Ma se il giovane Earvin voleva dimenticare, qualcun altro voleva ricordare. Kevin McHale parafrasò il titolo di un giornale californiano di qualche anno prima per definirlo in una conferenza stampa “Tragic Johnson”.
Larry Bird affermò: “Mi piacerebbe dare ai Lakers l’opportunità di una rivincita. Sono sicuro che ci sono loro giocatori che in questa finale hanno giocato molto al di sotto delle loro capacità”.
Nessun nome, ma il riferimento era evidente a tutti. E non era casuale. La possibilità della rivincita sarebbe arrivata ben presto. Lo sapeva Bird, lo sapeva Magic. Lo sapeva tutta l’America sportiva. Mai, nè prima, nè dopo, una stagione NBA aveva preso il via con la consapevolezza che la finale potesse essere una ed una sola. E l’esito quanto mai incerto.
Ma tutti i cicli sono destinati a finire. Tutti i record sono destinati ad essere battuti. Tutti i re sono destinati a cadere dal trono. E magari, ad essere applauditi, nonostante tutto.
Successe fra il maggio ed il giugno del 1985. La straordinaria striscia vincente dei Celtics in finale arrivò al suo epilogo.
Il tabù era stato sfatato. La leggenda abbatuta. Onore e merito a Magic Johnson, ma soprattutto al grandissimo Kareem Abdul Jabbar.
La Regular season 1984-’85 salutò l’esordio nella lega di giocatori quali Michael Jordan, Hakeem Olajuwon, Charles Barkley, John Stockton. Figure che ben presto avrebbero raggiunto lo status di giocatori simbolo degli anni ’90 e sarebbero arrivati a dominare la lega per molti degli anni a seguire. Eppure l’intera NBA era concentrata sullo scontro a distanza fra le due superpotenze. Lakers contro Celtics. Again and again.
Gerald Henderson, l’uomo del recupero miracoloso in gara 2, era diventato Free Agent subito dopo la finalissima del 1984. Aveva chiesto un ricco rinnovo contrattuale alla dirigenza biancoverde. Red Auerbach in risposta lo spedì a Seattle.
Cedric Maxwell l’eroe di gara 7 ebbe gravi problemi al ginocchio per tutta la season e lasciò il posto in quintetto a Kevin McHale, che per la prima volta in carriera lasciava il ruolo di sesto uomo. Anche Danny Ainge fu promosso in quintetto base.Ancora una volta però il protagonista assoluto della Season fu Larry Bird. Il biondino in casacca verde giocò come meglio non aveva mai fatto prima. Chiuse con 28.7 punti, 10.5 rimbalzi e 6.6 assist per gara. Il 12 marzo contro Atlanta e contro Dominique Wilkins, Bird realizzò 60 punti, compresi gli ultimi 16 dei Celtics ed uno straordinario 61% dal campo. Vinse il suo secondo MVP consecutivo e condusse Boston al miglior record NBA, 63 vittorie a fronte 19 sconfitte. I playoffs fino alla finale furono quasi una formalità.
I Lakers vinsero una partita in meno. Magic perse il trono di miglior assistman della lega, battuto da Isiah Thomas. In offseason sweeparono Phoenix, vinsero in 5 gare contro Portland e Denver e si presentarono in finale per la rivincita dell’anno prima.
Il fattore campo pendeva nuovamente dalla parte biancoverde. Ancora una volta, i Lakers per sfatare il tabù celtico, avrebbero dovuti imporsi almeno una volta al Garden. Un’impresa che ai più pareva disperata.
Per la prima volta nella lega la finale prevedeva la formula che oggi tutti conosciamo del 2-3-2. Due partite a Boston. 3 consecutive a LA. Due anccora al Garden.
Gara 1 si giocò il 27 maggio, il Memorial Day. Fu un massacro. Un imbarazzante massacro.
Scott Wedman, trentatreenne ala di riserva dei Celtics, mise tutti i suoi primi 11 tiri, incluso 4 canestri dalla distanza. Danny Ainge chiuse il primo periodo con 15 punti. I Celtics giocarono una delle migliori gare della loro storia.
“È uno di quei giorni in cui se ti bendi, fai due giri su te stesso e poi lanci la palla, va dentro!” dichiarò K. C. Jones a fine gara.
Jabbar fu annullato da Parish e finì con 12 punti e 3 rimbalzi. Magic mise un solo canestro dal campo. La partita si chiuse sul 148 a 114 per Boston e tuttora è ricordata in America come “The Memorial Day Massacre”.
Il giorno dopo in una conferenza stampa che i Lakers tennero nel loro albergo, le uniche parole di Jabbar di fronte ai giornalisti furono: “I was embarassed”.
Il re era vivo e vegeto. Il re era invincibile in finale. Tutti se ne dovevano fare una ragione.
Tutti ma non Riley. Il coach dei Lakers era convinto che l’ago bilancia della sfida fosse Kareem. Prese il suo centro da parte e gli parlò a lungo. Quindi lo esortò a tenere un discorso alla squadra.
Jabbar era il leader carismatico dei gialloviola, era importante si assumesse le proprie responsabilità e spronasse i compagni.
Pat contravvenne anche ad una delle sue regole ferree e permise che il padre di Kareem salisse sul bus che avrebbe portato i Lakers al Garden per gara 2.
Prima della partita Riley dichiarò: “Kareem ha giocato male. Lui lo sa. L’ha detto. Io gli ho parlato francamente, gli ho detto che non ha giocato duramente. Lui me l’ha confermato. L’ha confermato a tutta la squadra. Kareem ha fatto un promessa a me e a tutti i ragazzi. Ha detto che non succederà più, mai più. Dopo aver parlato, Kareem aveva una nuova luce nei suoi occhi. Non accadrà mai più!”.
E non accadde mai più: 30 punti, 17 rimbalzi, 8 assist e 3 stoppate furono il biglietto da visita di Jabbar in gara 2. Cooper completò l’opera con un 8 su 9 dal campo e 22 punti complessivi. I Lakers espunganorono il Garden per 109 a 102.
Avevano ora 3 gare consecutive in casa.
Nella prima al Forum, Worthy segnò 29 punti. Jabbar ne mise 26 e catturò 14 rimbalzi.
I Celtics a metà secondo quarto conducevano 48 a 28, ma i Lakers guidati da Worthy misero un parziale che li portò sul 69 a 59. Nel secondo tempo salì in cattedra Kareem che divenne il primo realizzatore di sempre nei playoffs.
Los Angeles si impose in gara 3 per 136 a 111, vendicando in parte lo smacco di gara 1. Bird aveva tirato con 17 su 42 dal campo nelle ultime 2 gare, era afflitto da un infortunio, ma i maligni più volte si ritrovarono a dichiarare che il suo vero problema avesse un nome ed un cognome: Michael Cooper, il meraviglioso difensore di L.A.
Gara 4 fu la partita più equilibrata della serie. Sul risultato di 105 pari, i Celtics avevano l’ultimo possesso. Larry Bird servì Dennis Johnson che, a due secondi dalla sirena, mise il canestro della vittoria.
La serie era sul 2 a 2. Il fattore campo era stato ristabilito.
Gara 5 era ancora a L.A. Gara 6 e 7 erano al Boston Garden. I Celtics erano virtualmente imbattibili in una gara 7 casalinga. L’unica speranza per i Lakers era vincere le due gare successive, senza possibilità di errore.
McHale segnò 16 punti nel primo tempo di gara 5 e obbligò Riley a spostare addirittura Jabbar su di lui, mettendo Rambis su Parish. La mossa pagò. I Lakers piazzarono un parziale di 14 a 3 e si portarono a condurre per 64 a 51.
L.A. portò il proprio vantaggio sull’89 al 72. Coach Jones fece leva sul cuore dei propri ragazzi. Boston rimontò e a sei minuti dalla fine si portò sotto di quattro: 101 a 97.
Ma stavolta il cuore non bastò. Magic piazzò tre canestri e Jabbar altri 4 chiudendo a 36 punti per il 120 a 111 finale. Si ritornava a Boston sul 3 a 2 Lakers. Jerry West si rifiutò di volare con la squadra e preferì rimanere in California. Chiese ai suoi ragazzi il tutto per tutto in gara 6. Non si doveva arrivare alla settima.
Durante i primi due quarti della sesta partita, i Celtics ruotarono solo 7 uomini. All’intervallo il risultato era fermo sul 55 pari. Riley vide i biancoverdi palesemente a corto di fiato. Erano stanchi, glielo si leggeva in faccia. Ordinò a Magic di metter loro pressione, di attaccarli senza sosta, di non preoccuparsi di perder qualche palla di troppo, l’importante era metterli alle corde.
Magic eseguì. Jabbar segnò 18 dei suoi 29 punti nel secondo tempo. McHale tenne i Celtics in partita con 36 punti, ma uscì per falli a circia 5 minuti dalla fine. Cooper limitò Bird e lo costrinse a tirare con 12 su 29 dal campo. E ai Celtics capitò qualcosa che mai era successo prima. Persero una serie finale in casa.
111 a 100 il risultato al suono della sirena. Gli ultimi secondi di gara 6 furono giocati in un silenzio quasi irreale. Un silenzio che era la più dolce delle melodie per i Lakers.
Jabbar fu nominato MVP della serie. Aveva 38 anni. Il giocatore più vecchio nella storia della lega a raggiungere l’ambito premio. L’aveva già vinto 14 anni prima, quando era ai Bucks.
“He’s just incredibile. He’s the most unique and durable athlete of our time” dichiarò Riley a fine gara.
“Li abbiamo finalmente sconfitti. Abbiamo battuto Boston. Li abbiamo battuti in finale, qui al Garden. Era tantissimo tempo che aspettavo questo momento”.
Il re moriva di sabato. Il 9 giugno del 1985, per la precisione. Boston perdeva la seconda serie finale della sua gloriosa storia. La prima al Garden. Deponeva le armi davanti all’avversario più degno che avesse mai potuto incontrare.
Ma non dubitiamo. Il re sarebbe risorto l’anno dopo, più forte che mai.
Pubblicato per Playitusa il
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