27. The Mailman and the Greatest

Dec 30th, 2010 by The Goat in NBA Legendary Games

Giunti quasi alla fine di questa inesorabile cavalcata non si poteva prescindere da quello che viene universalmente definito il più importante momento di tutta la storia della NBA.
“It was, quite simply, the greatest clutch sequence in basketball history” dichiara NBA.com.
Chiaro, secco, lineare, conciso.
Quel momento è stato un tiro. Un tiro, un’immagine, un affresco che riassume un’intera carriera. Una carriera fatta di trionfi, di vittorie, di successi inimmaginabili. Il braccio che rimane teso per alcuni secondi e si consegna agli avidi obbiettivi dei fotografi, alle luci dei flash, agli occhi sognanti ed affascinati di tutti, compagni, tifosi ed avversari.
Brividi.
Quei due minuti finali vissuti col fiato sospeso, incollato davanti alla TV, trepidante, perché sai che stai vivendo un evento epocale. E Lui che non delude le aspettative. Che ancora una volta riscrive la storia del basket. Che pone nuovi limiti, nuovi confini per ogni atleta che voglia cimentarsi in questo fantastico, insuperabile sport.
È il 14 Giugno del 1998. In campo ci sono gli Utah Jazz ed i Chicago Bulls. È gara 6 di finale. Teatro della sfida, il Delta Center di Salt Lake City. L’arena più chiassosa d’America.
Da una parte Karl Malone, John Stockton, Jeff Hornacek.
Dall’altra Scottie Pippen, il bizzoso e fantastico Dennis Rodman e poi c’è Lui. E’ il momento della verità. Mai così incerta per i Bulls. I Suoi Bulls.
Due anni prima Chicago aveva vinto 72 gare in Regular Season, record assoluto per l’NBA. La finale con Seattle era stata poco più di una formalità.
Poi erano state 69 le vittorie, eguagliando il precedente record dei Lakers. La finale contro i Jazz, bella e combattuta, aveva consegnato ai Tori il quinto titolo in 7 anni ed una certezza: avrebbero riprovato ancora per una stagione a vincere l’anello. Poi ognuno per la sua strada. The Last dance l’avevano ribattezzata negli States.
Non partirono bene i Bulls nella stagione 1997-98. Fra le bizze di un Rodman sempre meno gestibile e gli infortuni che si accavallavano senza sosta.
Pippen saltò le prime 35 gare. Dopo 15 partite Chicago aveva 8 vittorie e 7 sconfitte.
Pian piano arrivò la ripresa: 24-11 il record prima del ritorno di Scottie.
I Bulls si presentarono alla pausa dell’All Star Game con mezza gara di svantaggio nei confronti dei Peacers. Vinsero 25 delle ultime 29 partite e chiusero la stagione con 62 vittorie ed il primo posto nella Eastern Conference.
Secondi assoluti dietro i soliti Jazz che avevano lo steso record ma erano in vantaggio negli scontri diretti.
I playoffs furono una formalità per Utah. La squadra mormone soffrì solo al primo turno contro Houston (3-2), mentre si disfece facilmente degli Spurs di Duncan e Robinson (4-1) e sweeppò i Lakers di O’Neal e Bryant in finale di Conference.
Più complicato il cammino dei Bulls che nella finale della Eastern ebbero bisogno di 7 tiratissime gare per piegare la resistenza dei Pacers di Reggie Miller e del coach Larry Bird.
La finale riproponeva la stessa sfida dell’anno prima. Era l’occasione dell’agognata rivincita per Utah. Una rivincita tutt’altro che improbabile.
I Bulls erano stanchi, nervosi, incerottati. I Jazz erano nel pieno del loro splendore. Avevano riposato 9 giorni prima di dedicarsi alla finale. Lo sweep ai Lakers era ancora sotto gli occhi di tutti, così come l’immane fatica dei Bulls per eliminare Indiana.
Ma Chicago aveva Lui. E Lui ci credeva.
“Sto assaporando il momento perché potrebbe essere l’ultimo” dichiarò ai microfoni poco prima che la sfida avesse inizio.
I Jazz vinsero gara 1, trascinati da un superbo Stockton (24 punti per lui). Una vittoria netta ben oltre l’88-85 finale.
A fine primo tempo Utah era avanti per 52-34. Aveva segnato 21 punti in transizione, battuto Chicago sotto canestro, perso solo 13 palle ed in più la sua panchina aveva battuto quella dei Tori per 22 a 8.
Lui chiuse con 33 punti, ma solo 13 nel secondo tempo, condito da un 5 su 15 dal campo ed alcuni errori inusuali.
“Stanchezza!” fu la spiegazione di Phil Jackson.
Stockton invece mise in guardia i suoi dai facili entusiasmi: “Dovremo giocare ancora meglio nelle prossime gare. Loro sono sempre i campioni!”.
E i Bulls da campioni giocarono gara 2.
Lui segnò 37 punti e trascinò i suoi al successo per 93-88. Fattore campo ribaltato. Chicago aveva ora tre gare consecutive in casa per chiudere la serie.
Gara 3 passerà alla storia per la tremenda disfatta dei ragazzi dello stato Mormone.
Pippen giocò un gara difensiva perfetta. Segnò solo 10 punti, ma difensivamente sovrastò tutti. Raddoppiò costantemente su Ostertag e su Malone, limitò persino lo stesso Stockton che chiuse con 2 punti e 5 perse.
I Jazz persero 26 palle. Con Scottie sul perimetro, ogni singolo passaggio diveniva un’incognita.
La partita si concluse sul 96-54. 42 punti di scarto. Il più grande margine di vittoria in una finale.
I Jazz sembravano a terra. Tanto più che gara 4 fu ancora dei ragazzi dell’Illinois. Lui segnò 34 punti. Rodman dominò nuovamente Malone, mentre Pippen fu ancora stratosferico in difesa. In più segnò 29 punti, catturò 9 rimbalzi e smazzò 5 assist.
Serie sul 3 a 1. Chicago aveva il primo match point allo United Center.  Ma la fortuna voltò le spalle ai Tori proprio nel momento decisivo. Pippen ebbe problemi alla schiena e giocò una gara 5 disastrosa (2 su 16 al tiro), Rodman subì per la prima volta nella serie il ritorno di Karl Malone.
Il Postino realizzò 39 punti e portò i suo ad imporsi per 83 a 81. Inutili i 30 punti di un ottimo Kukoc.
Adesso si tornava a Salt Lake City per le ultime due gare della serie.
I Jazz, sotto 3 a 2, potevano contare sul fattore campo per rovesciare il risultato.
I Bulls avevano sprecato un ottimo match ball e adesso si presentavano al Delta Center per gara 6 con un Harper febbricitante ed un Pippen a mezzo servizio.
L’impresa per i Jazz era vicina. Ma anche no.
Palla a due.
Longley contro Ostertag al centro del parquet.
Chicago sembra partire forte ad inizio match, ma la fortuna continua a non esserle amica.
Il già malconcio Pippen cade malamente sulla spalla infortunata e deve rientrare negli spogliatoi. I Jazz, guidati da un Malone ancora carico da gara 5 (20 punti per lui solo nel primo tempo) rientrano in partita e sembrano staccare l’avversario.
Un regolarissimo canestro da tre dei Jazz allo scadere dei 24 secondi, viene annullato. Sarebbe stato il più otto per Utah.
È una scossa per Chicago.
Da quel momento la partita rimarrà in perfetto equilibrio fino alle battute finali.
Nell’intervallo circola la voce che Pippen non rientrerà in campo per il secondo tempo. Sugli spalti cresce la convinzione di portare la serie alla settima per una probabile e favolosa vittoria finale dei Jazz.
Ma Scottie non molla. Seppur dolorante, è regolarmente in campo ad inizio terzo quarto. Fa quel che può, aiuta in difesa, ma in attacco non è il solito Scottie. Dall’altro lato, Malone sembra aver esaurito la sua vena e ricomincia a soffrire la strabordante presenza di Dennis Rodman.
Il terzo quarto rimane equilibrato finché due giocate di Howard Eisley, a fine parziale, portano Utah a chiudere sul più cinque.
Il quarto periodo è interamente riportato sui nuovi libri di storia per gli studenti delle scuole superiori.
Lui non vuole cedere. Sa bene che un’eventuale gara 7 a Salt Lake City sarebbe difficile da vincere.
Con Pippen rotto, con Harper febbricitante, con Rodman nullo in fase offensiva, tutto pesa sulle Sue spalle.
Mantiene a galla i suoi Bulls, aiutato da un Malone che continua litigare col canestro (11 punti per lui nel secondo tempo) e da una difesa dei Jazz che non trova di meglio che mandarLo continuamente in lunetta pur di contenerLo.
Arriva l’ultimo minuto di gioco ed il risultato è bloccato sull’ 83 pari. Poi il genio di Stockton pesca sotto canestro Malone. Pippen va al raddoppio. The Mailman scarica fuori nuovamente per John. Stockton ha sbagliato le ultime due triple, eppure non ci pensa un secondo. Carica il tiro. Solo rete.
Utah avanti di tre. Mancano 46 secondi alla fine. Time Out Chicago. Rimessa da metà campo.
Lui riceve palla. Va in penetrazione, batte il suo diretto avversario, quel Bryon Russell che già l’anno prima si era dovuto inchinare alla dura legge del più forte, e segna il canestro del meno uno: 86-85, Jazz.
Trenta brevissimi, interminabili secondi alla fine. Palla a Utah. Un canestro, un misero canestro da sotto e sarebbe stata gara 7.
La palla è nelle mani giuste. Quelle di colui che è universalmente considerato il più forte playmaker puro di sempre. John Stockton serve Malone in post basso.
Karl Malone. L’uomo dei trentamila e passa punti in carriera. Eppure, quanti ne avrebbe dati via pur di realizzare quegli ultimi due che avrebbero consegnato la vittoria ai Jazz?
Karl riceve palla. Rodman gli è addosso.
Lui stava seguendo il taglio di Hornaceck. Lascia il suo avversario e piomba alle spalle del 32 in maglia Jazz.
Karl quasi non si accorge di niente. Sente solo il rumore violento di uno schiaffo sul pallone. La sfera gli sfugge dalle mani. E quando si gira, è già tardi.
Sconfitto, Lo vede andar via. Ormai irraggiungibile.
Il volto di Malone è una maschera di stupore e delusione. Il suo soprannome è The Mailman. Ha segnato migliaia di canestri in carriera e catturato caterve di rimbalzi, ha combattutto centinaia di battaglie ed in quel momento è la migliore ala forte di sempre.
Ma l’altro, il suo avversario, colui che gli ha sfilato sfera e vittoria dalle mani, è The Greatest. Il più Grande.
Manca una manciata di secondi alla fine.

Lui ha la palla in mano. E tutta la pressione del mondo addosso. Tutto il palazzetto contro. Tutti gli occhi puntati. Gli occhi di milioni di telespettatori sparsi per il globo. Ha l’ultimo possesso della partita. Forse della sua carriera. Ma sembra quasi non curarsene.
I Jazz decidono di non raddoppiarLo. Lui palleggia.
Quando mancano 5 secondi e 2 decimi alla fine, attacca l’avversario. Sempre il solito Russell. Lo sbilancia con una finta. Russell si siede per terra.
Lui ha il canestro di fronte, distante circa sei metri. Si alza in sospensione e lascia andare il tiro. Solo rete.
Quindi rimane col braccio alzato a suggellare quel momento. Per consegnarlo direttamente ai libri di storia.
I Bulls sono adesso sul più uno e mancano due secondi al termine. Time out Jazz.
Rimessa. Stockton prova la tripla della disperazione. Sbaglia. Poi solo il suono della sirena.
La partita è finita: 87-86.
Chicago è nuovamente campione. Il sesto titolo in otto anni.
Per Lui, 46 punti, 15 su 35 dal campo, 12 su 15 dalla lunetta, 16 punti nell’ultimo quarto.
Negli ultimi 2 primi e 6 secondi di gioco ha realizzato gli ultimi 8 punti dei Bulls, giocando praticamente da solo.
Ed ovviamente ha portato a casa il sesto titolo di MVP delle finali.
A fine partita, Steve Kerr Lo definisce “Così forte da far spavento!”. Phil Jackson parla degli ultimi Suoi due minuti come “The best performance I’ve seen in a critical situation and critical game in a series”.
Malone dichiara: “Non si può competere con uno come Lui. E’ malato. Malato di competitività!”.
Nba.com descrive così i sei secondi finali della partita:
“The defender loses his footing and falls to the court as he tries to keep the best player in the world from blowing past him. He seizes the moment. He stops on a dime, elevates and lets fly with the shot that will win or lose the game.
Nothing but net.
Nothing but an 87-86 victory over the Utah Jazz in Game 6 of the NBA Finals.
Nothing but a sixth title in an eight-year span.
Nothing but another tableau to enhance the legend”.

Eppure tutte queste parole non bastano.
Non spiegano completamente.
Alla fine rimane solo l’emozione di aver seguito in diretta gli ultimi istanti della Sua leggenda. Di averne assaporato la grandezza. Di aver visto giocare Lui, Micheal Jeffrey Jordan.
The Greatest.

Pubblicato per Playitusa il

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