5. L’anello approda a L.A.

Jan 3rd, 2011 by The Goat in NBA Legendary Games

Ladies and Gentlemen, from Los Angeles, California, The Ring!
E adesso non aspettatevi l’inconfondibile giro di chitarra che apre Roadhouse Blues, caso mai sarebbe d’uopo l’attacco di una versione riveduta e corretta di The Star Spangled Banner, l’inno nazionale americano. Magari stile Hendrix.
È la tarda primavera del 1972. Los Angeles conquista il suo primo titolo NBA. Agognato, sofferto, più volte sfiorato, ma mai ghermito.
Dapprima il più che decennale incubo Russell, poi il cuore di Willis Reed e dei giovani guerrieri della Grande Mela, infine lo strano connubio generazionale Robertson-Alcindor.
Quell’anello pareva essere maledetto. A dispetto dei Chamberlain, dei West, dei Baylor, dei record e delle innumerevoli finali, sembrava davvero non dovesse mai arrivare.
Ma per una volta lasciamo spazio ai numeri. Mai come in questo caso altamente esplicativi.
Los Angeles aveva fatto il suo ingresso nella Nationa Basketball Association nel 1960. Da allora sette finali disputate in unidici anni. Sette sconfitte.
Elgin Baylor era arrivato in NBA nella stagione 1958-’59. Otto finali disputate (una coi Minneapolis Lakers). Otto sconfitte.
Jerry West aveva esordito nella stagione 1960-’61. Sette finali, altrettante sconfitte.
Wilt Chamberlain, aveva disputato la stagione da rookie nel 1959-’60. Da allora cinque finali NBA giocate, quattro sconfitte, (tre a L.A., una a San Francisco). A cui vanno aggiunte quattro finali di conference perse contro i Celtics, su cinque disputate.
Un incubo.
Tutto questo fino a quel lontano 7 maggio 1972, quella domenica, giorno di gara 5 di finale, quando i Lakers piegarono definitivamente la resistenza dei Knicks e riuscirono a raggiungere l’anello, ad infrangere quei record negativi, a ritoccare quelle statistiche pesanti ed ingiuste. Ma non per tutti. Per Elgin Baylor l’anello non arriverà mai.
All’inizio della stagione 1971-’72, dopo appena 9 gare giocate con un record di 6 vittorie e 3 sconfitte, il trentasettenne Baylor aveva appeso le sue magiche scarpe al chiodo.
Una decisione aggravata da alcuni infortuni alle ginocchia che non gli avevano dato tregua.
Fu allora che i Lakers iniziarono quella famosa striscia di 33 vittorie consecutive in Regular Season e andarono a vincere finalmente l’anello. Ironia della sorte, gran parte del merito andava al nuovo coach della squadra, Bill Sharman, un vecchio nemico mortale, ex giocatore dei mitici Celtics di Russell.
Dopo il ritiro di Elgin, coach Sharman inserì Gail Goodrich nello starting five, per togliere pressione nella realizzazione all’ormai trentatreenne Jerry West, e convinse Chamberlain a concentrare il suo gioco più sulla difesa che sull’attacco. Wilt passò dai 20.7 punti dell’anno prima ai 14.8 della stagione in corso. Catturò 19,2 rimbalzi, vincendo la rispettiva classifica per la decima volta. La vincerà anche l’anno successivo, l’ultimo della sua immensa carriera.
Sharman utilizzò il giovanissimo Jim McMillian al posto di Baylor, mentre consegnò ad Happy Hairston il ruolo di “co-rimbalzista” della squadra. Anche Hairston abbassò notevolmente la sua media punti quell’anno, in compenso catturò 15 rimbalzi a gara, diventando il primo giocatore, compagno di squadra di Chamberlain, a prendere oltre mille rimbalzi in una stagione.
Il 5 novembre del ‘71, il giorno dopo il ritiro di Elgin, i Lakers sconfissero per 110-106 i Baltimore Bullets, poi non persero più per oltre due mesi. Fino al 9 gennaio del ’72, quando fecero visita ai Bucks. La striscia, appena interrotta, parlava di trentatre vittorie consecutive. Un record tuttora imbattutto.
Lo stop contro i Bucks, non impedì a Los Angeles di riprendere la sua cavalcata vincente. Jerry West mise a referto 25.8 punti, 9.7 assist e 4.2 rimbalzi ad allacciata di scarpe. Wilt Chamberlain 14.8 punti, 19.2 rimbalzi, 4 assist, il 65% dal campo.
Los Angeles chiuse la stagione con 69 vittorie e 13 sconfitte. Un risultato che migliorava il precedente record di 68 vittorie e 14 sconfitte appartenente ai Sixers del 1967 (squadra in cui militava Chamberlain prima del passaggio a Los Angeles).
Un record che ha resistito agli assalti delle varie squadre per 24 anni, fino al 1996, anno in cui i Bulls di tale Michael Jordan finiranno la season con all’attivo 72 vittorie e 10 sconfitte.
I Lakers si presentarono ai playoffs come la squadra da battere. Al primo turno spazzarono via Chicago con un sonante 4-0.
In finale di conference lo scontro più difficile, contro i Bucks di Oscar Robertson e Lew Alcindor (eletto per la seconda volta consecutiva in tre stagioni da professionista MVP della Regular Season). I campioni in carica di Milwuakee resistettero per sei partite, poi arrivò la sconfitta. Chamberlain in quella serie dominò Jabbar. 4-2 Lakers, e tutti a casa.
Adesso ancora una finale. L’ottava in undici anni.
Gli avversari erano i New York Knicks, in una riedizione dell’epica serie di due anni prima. Quella dell’eroica impresa di Willis Reed che aveva portato NY alla vittoria in sette gare. Era l’occasione buona per una grande rivincita per i Lakers.
Stavolta infatti, l’ago della bilancia pendeva inesorabilmente dalla parte dalla parte gialloviola. Reed era fuori per infortunio. Dick Barnett pure. I Knicks non erano quelli di due anni prima. Ma soprattutto i Lakers sembravano nutrire una sconfinata sicurezza nei propri mezzi.
Eppure in gara 1, New York si impose al Forum per 114-92, grazie a 26 punti di Lucas. I Lakers si ritrovarono in un baleno a perdere fattore campo e parte della loro sicurezza.
Vecchi fantasmi riemersero a turbare i sogni dei tifosi di LA. Ricordi di finali già vinte in partenza, ma perse agli ultimi secondi di gara sette.  Quella volta dei palloncini al Forum contro i Celtics o quella volta al Madison, quando Reed sbucò dal tunnel, per folgorare il pubblico ed i giocatori in campo. Troppi ricordi, troppe storie che sembravano essere definitivamente dimenticate almeno per una stagione ed ora tornavano a galla. Nuovi spettri ripresero a ripopolare gli incubi di un’intera città.
Gara 2 diventava già decisiva per l’anello. Ma la fortuna stavolta sembrò premiare i californiani.
Dave DeBusschere si infortunò alla fine del primo quarto, e i Knicks già privi di due fra i migliori giocatori della squadra, si ritrovarono in situazione di emergenza.
I Lakers si imposero per 106-92.
Quindi ci si spostò sull’altra costa. Al Madison Square Garden, dove quasi non ci fu più partita. Gara 3 andò ancora ai Lakers, ma la gara cruciale della serie fu la quattro. Nel primo quarto, Wilt Chamberlain si infortunò ad un polso. Forse memore delle critiche piovutegli addosso qualche anno prima in occasione della finale del ‘69, decise di continuare a giocare. Portò i Lakers alla vittoria di misura, maturata nell’overtime. In più si fece imbottire di antidolorifici per essere presente anche nella decisiva gara 5. Siglò 24 punti, tirò giù 29 rimbalzi. I Lakers si imposero per 114-100.
Era titolo. Era anello. Il primo per la città californiana. Chamberlain a fine serie aveva messo in cinque partite 97 punti, 116 rimbalzi ed un 60% al tiro. Per lui il premio di MVP delle finali.
Negli spogliatoi West pianse. Questa volta però di gioia. E ringraziò pubblicamente il proprio centro per quella vittoria: “Wilt? E’ semplicemente l’uomo che ci ha portato fin qui!”.
Per Jerry West, quella finale fu uno strano scherzo del destino. Aveva portato i Lakers a sette finali, giocando un basket fantastico per dieci anni nella lega. Aveva lottato quasi da solo nella finale del ’69 contro i Celtics. Aveva tenuto in piedi i suoi Lakers nella finale del ’70 contro i Knicks, aveva strabiliato il mondo, aveva conquistato la stima di avversari e tifosi ed aveva sempre perso. Aveva sofferto e pianto per questo, come mai nessun’altro.
Ora che aveva appena giocato in quella serie finale il peggior basket della sua gloriosa carriera, aveva vinto un titolo. Il primo ed unico titolo:
“Ho giocato un basket terribile in queste finali e abbiamo vinto. In tutto questo sembra non esserci giustizia per me. Io ho contribuito così tanto negli anni scorsi per far vincere questa squadra, ma perdevamo sempre. Ora abbiamo vinto. Proprio quando ero solo una pezzo del macchinario. E’ particolarmente frustrante per me. Ho giocato in maniera così misera che la squadra avrebbe potuto benissimo far a meno di me e vincere comunque!”.
Ma al di là delle fin troppo eccessive recriminazioni, quel meritatissimo titolo fu il coronamento di una carriera eccezionale. Giusto premio per uno dei giocatori più amati ed ammirati nella storia della pallacanestro mondiale.

Pubblicato per Playitusa il

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